Transizione energetica, i fattori umani e sociali non possono essere trascurati
Può la sindrome Nimby spiegare perché gli stessi movimenti che si sono battuti contro la produzione di energia da fonti fossili hanno poi fatto opposizione alle nuove tecnologie delle rinnovabili?
Perché le persone non adottano comportamenti energeticamente più efficienti anche quando questi sono tecnicamente ed economicamente vantaggiosi?
Sono alcune delle questioni affrontate da Natalia Magnani, docente di Sociologia dell’ambiente e Sociologia del territorio presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento, nel volume “Transizione energetica e società – temi e prospettive di analisi sociologica”, edito da Franco Angeli.
Secondo Magnani la trasformazione del modello dominante di produzione energetica dalle fonti fossili alle rinnovabili e le questioni climatiche ad esso connesse e alla sostenibilità dell’attuale modello di sviluppo, sono state finora affrontate adottando esclusivamente le categorie delle scienze economiche e ingegneristiche.
L’attenzione della ricerca si è focalizzata sull’hardware piuttosto che sul software, cioè sugli aspetti umani e sociali.
La storia dello sviluppo umano è una storia di transizioni da un sistema di produzione energetica ad un altro che ha prodotto importanti trasformazioni sociali (pensiamo all’impatto del carbone e del petrolio sulla società dell’800 e del 900). Tuttavia la transizione energetica in corso, secondo l’autrice, richiede di considerare al contrario proprio l’impatto del fattore umano sulla possibilità di sviluppo delle diverse tecnologie green.
Secondo alcuni approcci di ricerca analizzati nel libro “le energie rinnovabili sono concepite come un grande esperimento sociale che richiede trasformazioni a più livelli”.
Su questi temi abbiamo rivolto alcune domande all’autrice del libro.
A proposito dei conflitti in opposizione alle rinnovabili, lei scrive che un cambiamento nella pianificazione delle FER non dovrebbe più mirare all’accettazione di una tecnologia da parte delle comunità locali, quanto piuttosto a verificare la sua adeguatezza rispetto a un territorio inteso come comunità. Quale sarebbe un approccio che tenga conto di questo fattore sociale e umano?
«Le politiche di sostegno alle rinnovabili in Europa si sono basate negli anni 2000 prevalentemente sull’introduzione di tariffe incentivanti. La realizzazione di impianti ha generato due tipi di conflitto: uno riguardante gli interessi locali-regionali dovuto alla competizione tra interessi concorrenti; ad esempio gli impianti eolici off-shore e l’industria turistica costiera; l’altro conflitto è interno al movimento ambientalista che, per una parte vede gli impianti di energie pulite come tecnologie che minacciano l’equilibrio naturale, a causa del loro impatto sul paesaggio, le interferenze con la fauna locale, eccetera».
I media, le imprese, talvolta le istituzioni definiscono questi conflitti adottando l’etichetta della sindrome Nimby, non nel mio cortile…
«Vero, ma la maggior parte degli studi sociologici che analizzano i conflitti relativi agli impianti per la produzione di energia rinnovabile nei paesi industrializzati critica questa etichetta semplicistica. La sindrome Nimby implica una visione caratterizzata da atteggiamenti di egoismo, cioè di attenzione solo ai propri interessi particolaristici e localistici, di irrazionalità ed eccesso di emotività, mancanza di equilibrio e ponderazione nella valutazione dei rischi, superficialità e ignoranza. Tuttavia, attraverso la ricerca empirica sia di tipo qualitativo che quantitativo vari studi hanno messo in luce la sostanziale infondatezza di tali accuse fino ad arrivare a parlare di vero e proprio mito».
Se non ha a che fare con i propri interessi particolari, perché dunque ci si oppone alle rinnovabili?
«È stata sottolineata la rilevanza di altre variabili esplicative: la questione del conflitto tra saperi esperti e saperi basati sull’esperienza e la storia dei luoghi; le questioni di giustizia ambientale distributiva riguardanti la distribuzione costi-benefici tra gruppi sociali e territori, ma anche quella procedurale come la presenza nella pianificazione territoriale di un processo decisionale trasparente e partecipativo in grado di garantire a tutti gli stakeholders rilevanti le informazioni e la possibilità di esprimere le loro diverse opinioni. Tutto ciò impedisce spesso alla comunità locale di partecipare a progetti che hanno a che fare con le rinnovabili, o di beneficiarne».
Cosa mette in evidenza l’analisi sociologica?
«Afferma che c’è la necessità di superare gli approcci consueti ai luoghi della transizione: sia quello che considera i luoghi della produzione di energia rinnovabile essenzialmente come backyards, cortili dominati da opposizioni Nimby, sia quello che considera i progetti sulle rinnovabili come “siti da sviluppare”, che è la prospettiva scelta dagli esperti e che si focalizza sulla ricerca di caratteristiche tecniche dei potenziali luoghi, come per esempio la velocità media del vento, la prossimità alla rete elettrica, le caratteristiche del suolo, l’accessibilità, l’impatto visivo, eccetera».
Aspetti tecnici, economici e anche ecologici importanti, non crede?
«Ma le localizzazioni per i progetti di fonti rinnovabili non sono solo siti con caratteristiche topografiche, ecologiche o archeologiche, sono territori intessuti di elementi simbolici o emozionali, memorie, storie e miti, e anche di relazioni e dotazioni di capitale sociale, che li rendono più o meno fragili e mediano il modo in cui una stessa tecnologia può essere implementata».
Cosa ci dicono le ricerche svolte finora?
«Alcune ricerche empiriche dimostrano che l’opposizione pubblica si verifica più frequentemente in contesti sociali in cui l’attaccamento al luogo e l’identificazione con esso vengono alterati. Una prospettiva incentrata sul territorio anziché sul potenziale produttivo di un sito non mira ad assicurare l’accettazione di una tecnologia da parte della popolazione, quanto a individuare i modi in cui la tecnologia può essere adeguata al luogo. Cioè il grado in cui i residenti ritengono che il progetto proposto non alteri la specificità di un luogo e consenta la continuità con il passato. L’adeguatezza riguarda anche le relazioni tra gli attori, locali e non, che le rinnovabili producono e il grado in cui gli attori sociali locali sono in grado di incorporare l’innovazione tecnologica nella struttura relazionale».
Qualenergia.it ha recentemente pubblicato un articolo a valle del convegno “Il patrimonio immobiliare italiano: un’infrastruttura strategica al servizio del sistema energetico del Paese“ in cui si spiega che risparmio energetico e riqualificazione degli edifici fanno fatica a decollare.
Chiediamo a Natalia Magnani perché strategie e comportamenti volti a una maggiore sostenibilità dei consumi e il risparmio energetico ancora stentano. Che cosa non stiamo considerando?
«Quello dei consumi e del risparmio energetico è un tema da sempre cruciale nella relazione tra energia e società. La scienza del risparmio energetico è stata all’inizio esclusivamente tecnica ed economica, focalizzata sull’aumento dell’efficienza tecnologica della produzione, trasmissione e consumo di energia. Tuttavia a un certo punto le scienze sociali hanno incominciato a interessarsi al tema della variabilità dei consumi energetici a parità di condizioni e a cercare di comprendere perché le persone non adottano i comportamenti energeticamente più efficienti, anche quando ciò è tecnicamente possibile. Il punto è che quando le persone usano beni e servizi non considerano che le proprie attività riguardino il consumo energetico, ma piuttosto ritengono di svolgere normali attività come cucinare, viaggiare, pulire. Il consumo infatti è all’interno delle pratiche e non si vede. Le persone non sono interessate a consumare l’energia in sé stessa, ma sono invece interessate ai servizi che essa rende possibili. In questa prospettiva il cambiamento e l’evoluzione dei consumi energetici è fortemente dipendente dalla capacità delle nuove tecnologie di essere efficacemente integrate nelle pratiche di vita quotidiana».
Questa prospettiva è stata applicata anche al retrofit energetico?
«Sì, perché anche qui non si tratta semplicemente di una questione che riguarda di offrire ai proprietari di una abitazione la giusta informazione e motivazione. Essi non devono essere considerati come individui isolati che decidono singolarmente e razionalmente se iniziare un processo di retrofit, ma piuttosto come portatori di abitudini e consuetudini riguardanti quello che è “normale fare” o ciò che costituisce il “comfort”, ed essere inseriti in più vaste connessioni di routine, saperi consolidati e percorsi tecnologici. Questi fattori sociali possono indebolire i meccanismi di incentivazione progettati solo per attori razionali che si suppone agiscano sulla base di un puro calcolo costi-benefici».
Quindi cosa andrebbe fatto?
«È importante elaborare politiche che favoriscono l’integrazione tra le pratiche di retrofit e quelle di vita quotidiana, oltre che tra domanda e offerta, attraverso percorsi di accompagnamento degli abitanti/utenti, così come sta avvenendo in alcuni contesti nordeuropei. Inoltre serve promuovere finanziariamente approcci collettivi al retrofit a livello più ampio del mero singolo appartamento, dal condominio al quartiere. Un approccio collettivo è centrale anche per affrontare le sfide dell’accessibilità e dell’equità dell’abitare sostenibile».
Transizione energetica e società – temi e prospettive di analisi sociologica, Natalia Magnani, FrancoAngeli Edizioni, pp. 168, 2018.
Powered by WPeMatico