Gilet gialli, carbon tax e transizione energetica
La rivolta dei gilet gialli in Francia fa capire l’importanza di trovare soluzioni efficaci nell’applicazione delle misure ambientali.
Questa attenzione vale particolarmente per la carbon tax, strumento che penalizza l’uso dei combustibili fossili in ragione del loro contenuto di carbonio favorendo l’efficienza energetica e le rinnovabili, che ha avuto finora una diffusione limitata.
Eppure i danni causati dalle emissioni di anidride carbonica sono chiari. Secondo un recente rapporto dell’Agenzia federale tedesca dell’ambiente il costo ambientale può essere valutato in 180 euro per ogni tonnellata.
Dando uno sguardo globale, in realtà troviamo una cinquantina gli schemi di tassazione: 25 riguardano modelli di Emissions trading rivolti alle industri energivore e 26 sono vere e proprie carbon tax.
Complessivamente questi provvedimenti riguardano 11 miliardi di tonnellate di CO2eq, cioè circa un quinto delle emissioni mondiali per un valore che nel 2018 ha raggiunto 82 miliardi $, con un incremento del 56% sul 2017.
Se poi analizziamo l’entità dei prezzi adottati, scopriamo che questi sono piuttosto bassi, in molti casi sotto i 20 $/t. I sei paesi con valori in dollari per tonnellata di anidride carbonica più elevati sono la Svezia con 139, la Svizzera e Liechtenstein con 101, la Finlandia con 77, la Norvegia con 64 e la Francia.
E arriviamo dunque proprio alla Francia, oggi sotto il fuoco dei riflettori per le manifestazioni dei gilet gialli. Il paese ha deciso di puntare per il successo della lotta climatica sulla tassazione del carbonio, prevedendo una sua progressiva crescita partendo dal 2014.
Si dovrebbe passare dagli attuali 45 €/t a 55 nel 2019 (incremento che probabilmente verrà sospeso dopo le agitazioni di questi giorni), 65 € nel 2020, 76 € nel 2021 e 86 € nel 2022.
Questa tassa ambientale è stata concepita dai francesi con un doppio scopo: da un lato quello di ridurre le emissioni di CO2, dall’altro quello di penalizzare i veicoli diesel a causa del loro inquinamento. Così un litro di benzina ha visto quest’anno un incremento di 3,9 centesimi, mentre il diesel è cresciuto di 7,6 centesimi.
La rivolta dei gilet gialli, alimentata da un generale malessere per le politiche macroniane, si è concentrata sulla carbon tax. In realtà, l’aumento dei prezzi dell’ultimo anno è dovuto per due terzi al maggior costo del petrolio e solo per un terzo alla fiscalità ambientale.
Ma tant’è, la carbon tax è diventata l’oggetto delle contestazioni dilagate a macchia d’olio, con in prima fila i cittadini dei piccoli centri obbligati a spostarsi utilizzando veicoli diesel.
Per far fronte alla rivolta sono state aumentate le misure di compensazione come l’erogazione dello “chèque énergie” elargito alle famiglie più bisognose che è passato da 100 a 150 € e allargando la platea delle famiglie da 3,6 a 5,6 milioni.
L’impressione è però quella di un tentativo di un aggiustamento tardivo.
Era un esito scontato? Tutt’altro. Per capirlo basta andare dall’altra parte dell’Oceano e vedere cosa succede in Canada. Anche questo paese intende partire con la tassazione il prossimo anno, ma lo fa dopo una decennale sperimentazione in alcune aree del paese e con una strategia molto chiara sulle compensazioni.
La provincia di Alberta aveva infatti introdotto la carbon tax già nel 2008 con risultati incoraggianti: tra il 2007 e il 2015 a fronte di una crescita economica del 17%, le emissioni erano calate del 5%.
Forte di questi risultati, il primo ministro Justin Trudeau ha deciso di applicare la tassazione in tutto il paese come strumento chiave per ridurre nel 2030 le emissioni climalteranti del 30% rispetto ai valori del 2005.
La misura partirà nel 2019 con un valore di 20 $/tonnellata, proseguendo con aumenti annuali di 10 $ fino ad arrivare a 50 $ nel 2022, anno in cui la tassa comporterà un incremento dell’8% del prezzo della benzina.
Ma l’aspetto più interessante di questa misura riguarda la decisione di restituire alle famiglie il 90% dei 2,3 miliardi $ che lo Stato conta di incassare.
Inoltre il 70% cittadini che abitano lontano dai centri abitati, riceveranno un rimborso superiore alla spesa per la carbon tax.
Così una famiglia con entrate medie della provincia di Saskatchewan dovrà pagare circa 400 $ all’anno in più, ma riceverà detrazioni fiscali per 600 dollari.
Sarà interessante analizzare la sua applicazione, considerando il fatto che alcuni governatori sono critici nei confronti di questa misura, mentre in altre provincie questo sistema è già rodato. Certo, lo strumento è stato predisposto con una grande attenzione al consenso.
Per finire, è opportuno ricordare che ci sono esperienze di tassazione del carbonio efficaci, accettate dalla popolazione e attive da decenni. Pensiamo alla Svezia che ha adottato una carbon tax nel 1991 con un valore cresciuto nel tempo arrivando a 120 €/t, cioè dieci volte superiore alla media dei prezzi degli altri paesi che hanno iniziato questo percorso.
I risultati sono interessanti, considerando che a fronte di una crescita del Pil del 75%, la produzione di anidride carbonica si è ridotta del 26%. Al disaccoppiamento tra economia ed emissioni ha certamente contribuito la tassazione del carbonio che ha influenzato soprattutto le emissioni nel settore civile e, in modo minore, quelle dei trasporti e delle industrie non assoggettate all’Emissions Trading.
Particolarmente significativi i risultati dell’edilizia con un taglio delle emissioni dell’80% grazie alla diffusione del teleriscaldamento e dell’uso della legna. Nei trasporti la tassazione ha favorito l’uso dei biocombustibili e la mobilità elettrica con una riduzione del 10% delle emissioni di CO2.
Dunque, quella svedese rappresenta un’esperienza positiva, pur nella particolarità del paese in cui è stata introdotta.
Dall’analisi delle esperienze in atto si comprende che la carbon tax può dare risultati molto positivi se applicata bene. In realtà, quello che servirebbe è una carbon tax europea, un obbiettivo perseguito da tempo e rilanciato lo scorso anno proprio da Macron, ma che finora non ha trovato i consensi necessari.
Ecco dunque un obbiettivo forte da rilanciare in occasione delle elezioni del Parlamento europeo del 2019.
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