La spinta dal basso che illumina il fosco futuro climatico
Scena 1
Ogni anno le stime sulle dinamiche dei veicoli elettrici diventano più interessanti. Bloomberg valutava nel 2017 che la competitività rispetto alle auto convenzionali sarebbe arrivata nel 2026, cioè nove anni dopo; nel 2018 la stima era scesa a sei anni, cioè nel 2024, mentre oggi si parla del 2022.
E parallelamente si alzano le valutazioni sulla quota di auto elettriche che circoleranno nel 2025 e nel 2030. Con la Norvegia in fuga, dove a marzo addirittura il 58% delle auto vendute erano elettriche.
Scena 2
Nel 1999 veniva installato nel mondo meno di 1 GW fotovoltaico, lo scorso anno sono stati realizzati più di 100 GW, grazie ad una riduzione dell’84% del costo dei moduli rispetto ai valori del 2010.
E in tutti gli ultimi otto anni gli investimenti mondiali nelle rinnovabili hanno oscillato attorno ai 300 miliardi $. Una bella cifra, ma la cosa interessante è il dato che, a parità di investimenti, la potenza solare ed eolica installata nel 2018 è risultata 2,4 volte superiore rispetto a quella del 2011.
Per finire, due flash. Uno dalla Germania dove nel mese di marzo le rinnovabili hanno generato il 54% dell’elettricità. Il secondo dal Portogallo dove l’anno scorso le rinnovabili hanno generato il 52% dei kWh.
Ma le disruptive technologies non bastano
Le scene di questi successi delle “disruptive technologies” potrebbero continuare, evidenziando le portentose opportunità fornite da soluzioni sempre più efficienti e meno costose.
Ma pare sempre più evidente che queste tecnologie, seppure indispensabili, da sole non bastano.
Nell’ultimo biennio le emissioni mondiali di anidride carbonica sono infatti aumentate di 1,1 miliardi di tonnellate, una quantità pari a tre volte la produzione italiana di CO2.
E, pur essendo in forte crescita, la produzione aggiuntiva delle rinnovabili nel 2018 è riuscita a soddisfare meno della metà dell’incremento mondiale della domanda elettrica.
Dunque le emissioni crescono, mentre per non superare l’incremento di 2 °C dovremmo iniziare a diminuirle, arrivando ad azzerare il loro contributo netto entro 40-50 anni. Uno scenario che per i paesi industrializzati comporterà necessariamente uno sforzo maggiore rispetto a quello richiesto a quelli in via di sviluppo, con una decarbonizzazione da raggiungere entro la metà del secolo, un obbiettivo fatto proprio dall’Europa. Naturalmente i tagli sarebbero decisamente più incisivi se si volesse evitare di superare l’incremento di 1,5 °C.
E questa è solo una delle criticità ambientali. Basti pensare alla perdita di biodiversità che sta raggiungendo livelli impressionanti, tanto che gli scienziati ritengono che siamo entrati nella sesta estinzione di massa nella storia del pianeta.
Il futuro è dunque decisamente problematico.
La ribellione climatica
Ecco, è proprio la contraddizione tra la crescita delle emissioni e le indicazioni della comunità scientifica sui rischi della crisi climatica e sui tagli che sarebbero necessari che fa scattare la protesta dei giovani, dagli scioperi studenteschi di Greta ai blocchi pacifici dei ponti di Londra di Exctintion Rebellion, al Green New Deal sostenuto da Alexandra Ocasio Cortez.
Tutti con indicazioni molto radicali sia sul versante ambientale, che su quello sociale. “Giustizia climatica” è una loro comune richiesta proprio per sottolineare le responsabilità di chi ha iniziato il disastro e le ripercussione che colpiscono maggiormente i più deboli.
Per intenderci, la proposta statunitense indica una serie di obbiettivi tanto ambiziosi da risultare impraticabili, come quello di arrivare entro 10 anni al 100% di elettricità rinnovabile.
Ma proprio queste proposte e le mobilitazioni connesse hanno riaperto il dibattito portando consensi inaspettati. Un recente sondaggio sui contenuti energetici del Green New Deal ha evidenziato come il 40% dei cittadini Usa si dica decisamente d’accordo con questi scenari e solo il 18% si dichiari contrario.
Il programma delle giovani e agguerrite rappresentanti nel Congresso ha anche una forte valenza sociale, come dimostra la proposta di realizzare l’assistenza sanitaria universale.
Una cosa è certa: queste “provocazioni” hanno decisamente innalzato l’attenzione sulle scelte politiche da adottare e sulla possibilità di avviare una trasformazione ecologica dell’economia.
Così il sindaco di New York Bill De Blasio lo scorso 22 aprile, giornata della Terra, ha lanciato il suo Green New Deal con l’obbiettivo di ridurre entro il 2030 del 40% le emissioni della metropoli, concentrandosi sugli incredibili sprechi energetici dei grattacieli di vetro e acciaio.
“Se non li riqualificheranno entro la fine del prossimo decennio pagheranno multe milionarie. E in futuro non si potranno più costruire edifici inefficienti”, ha detto il sindaco, confortato anche dai risultati della riqualificazione in atto dell’iconico Empire State Building che consentirà di ridurre i consumi del 38%.
Ma programmi ambiziosi vengono elaborati in giro per il mondo.
Un Green New Deal è stato proposto anche dagli ambientalisti per l’Europa con obbiettivi molto netti: zero emissioni entro il 2045, 100% elettricità pulita entro il 2040, un risparmio energetico di almeno il 50% al 2030 dei consumi attuali e l’introduzione di una tassazione socialmente giusta e sostenibile della CO2.
Sia in Cina che in India è forte la discussione su come accelerare le politiche ambientali, la diffusione delle rinnovabili, il decollo dei veicoli elettrici…
E c’è chi propone un Green New Deal su scala globale come unica soluzione per vincere la sfida climatica, puntando cioè ad un Accordo di Parigi dotato di seri strumenti di intervento, ipotizzando un gigantesco fondo mondiale alimentato in parte con una tassazione dei grandi gruppi in funzione dei loro profitti.
Separare la crescita economica dalle emissioni climalteranti
Per evitare i rischi climatici e affrontare le altre criticità ambientali ci si deve porre la domanda: l’attuale sistema economico sarà in grado di evitare una crisi ambientale irreversibile?
Per capirlo, analizziamo in che modo sta variando il rapporto tra crescita economica ed emissioni.
Negli Usa e in Europa nell’ultimo decennio si è avuto un disaccoppiamento assoluto con un’economia in crescita e la produzione di CO2 in calo, mentre in altri paesi si è riscontrato un disaccoppiamento relativo, nel senso che le emissioni sono cresciute meno del Pil.
Ma la situazione complessiva non è rosea. Infatti, mentre tra il 1960 e il 2000 l’economia globale si è decarbonizzata ad un tasso annuo dell’1,28%, e in questo scorcio di secolo il trend ha subito una decelerazione.
Non siamo dunque sulla strada giusta. La crisi climatica infatti, oltre a richiedere un “decoupling” assoluto, un disaccoppiamento raggiunto da pochi, impone la questione “tempo”. Occorre infatti un’accelerazione tale da evitare il sforare il limite di 1,5 o 2 °C senza superare i miliardi di tonnellate di CO2 che potranno ancora essere emesse.
Analizziamo quindi gli scenari elaborati dall’IPCC per capire quali strumenti e politiche possiamo attivare.
La larga maggioranza delle modellizzazioni effettuate per verificare la possibilità di stare sotto i 2 °C prevede l’impiego di BECCS, cioè della coltivazione di foreste con successiva combustione della biomassa e cattura della CO2.
Una soluzione controversa e costosa che prevede la forestazione di superfici enormi e la realizzazione di migliaia di impianti di combustione connessi a centri di iniezione dell’anidride carbonica nel sottosuolo.
D’altra parte, senza l’impiego dei BECCS le emissioni globali dovrebbero ridursi del 4% l’anno per stare sotto i 2 °C e del 6,8% per non superare 1,5 °C. Una dinamica assolutamente impraticabile senza una riduzione significativa dei consumi di energia.
Un percorso di questo tipo è stato analizzato in uno scenario denominato LED (Low Energy Demand) inserito nell’ultimo rapporto dell’IPCC.
Questo modello ipotizza una riduzione del 40% della domanda di energia al 2050 ed un declino del 20% del consumo di materie prime. Risultati ottenibili grazie ad un processo di dematerializzazione dello sviluppo favorito dall’espansione delle soluzioni di sharing e da un miglioramento dell’efficienza nell’uso dei materiali.
Se questo scenario è particolarmente spinto, va detto che il contenimento dei consumi energetici svolge un ruolo centrale in tutti gli scenari di decarbonizzazione.
Ma ridurre la domanda di energia su scala globale non è semplice, tanto più in presenza di una dinamica che porterà nei prossimi trent’anni ad una aumento di 2,3 miliardi abitanti.
Un recente rapporto sull’efficienza energetica della IEA stima che, in presenza di un raddoppio del Pil mondiale al 2040, anche con politiche molto incisive i consumi energetici rimarrebbero leggermente più alti degli attuali livelli (+7%).
Va però evidenziato come lo studio, mentre tratta in dettaglio tutte le opzioni per migliorare l’efficienza nei vari comparti (edilizia, trasporti, industria), sfiora soltanto il ruolo dei cambiamenti comportamentali e non parla, ovviamente, di una rivisitazione del modello di sviluppo.
Il fatto è che per ottenere riduzioni più significative questi due elementi dovranno assolutamente entrare in gioco.
In questo senso è interessante l’obbiettivo della Svizzera di tagliare di due terzi i consumi pro capite al 2100 abbinando politiche sull’efficienza e modifiche degli stili di vita. E questa decisione del governo, ratificata da un referendum, ci riporta indirettamente ai movimenti di questi giorni.
Greta viaggia in treno, è vegana (non sottovalutiamo l’impatto dell’allevamento e dell’alimentazione negli squilibri climatici) e oltre ad accusare l’inettitudine dei governi sottolinea l‘importanza dei comportamenti individuali.
Larga parte delle emissioni dipendono infatti dalle nostre scelte, dagli acquisti che facciamo, da cosa mangiamo, da come ci spostiamo ed è fondamentale, anche se non semplice, riuscire a metterle in discussione.
“I ragazzi che scendono in piazza per il clima sono i veri adulti. Noi adulti invece ci stiamo comportando come bambini”, ha dichiarato William Nordhaus, premio Nobel 2018 per l’economia.
Exctintion Rebellion evidenzia la necessità di adottare incisive e creative forme di lotta non violenta per dare la sveglia ai politici.
Il Green New Deal di Alexandra Cortez negli Usa, indica politiche avanzate e smuove l’opinione pubblica.
Cosa accomuna queste mobilitazioni e queste proposte ambiziosissime? Certo la consapevolezza dei rischi a cui andiamo incontro, ma anche l’attenzione sulla variabile “tempo”.
Infatti, non c’è più tempo. Non sono più in pericolo solo le generazioni future. I giovani capiscono che è la qualità della loro stessa vita ad essere in gioco.
L’aspetto interessante è che questi movimenti iniziano ad incidere.
Così se a Dubai l’anno prossimo verrà inaugurata la follia di un grattacielo con una pista da sci di 1,2 km, a New York si combatte l’edilizia affamata di energia. E, se l’Eni è stata la prima compagnia a trivellare nell’Artico, in Norvegia vengono proibite le esplorazioni nei pressi delle isole Lofoten.
E negli UK il Labour si sveglia e presenta, in un Parlamento bloccato da due anni in estenuanti discussioni sulla Brexit, una mozione per dichiarare l’emergenza climatica, analogamente a quanto deciso dai governi della Scozia e del Galles.
Perché deve essere chiaro che per battere la crisi climatica, alla fine, sarà decisivo il ruolo delle istituzioni e dei governi. Andrà rivisitata la fiscalità per ridurre le diseguaglianze e per colpire i fossili. Si tratta di rimettere in discussione l’attuale sistema economico trovando stimoli e regole che consentano di dare maggiore importanza alla prosperità dei cittadini, piuttosto che sull’unico parametro della crescita.
Proprio come recita uno slogan che risuona spesso nelle manifestazioni di queste settimane: “System change not climate change”.
L’articolo pubblicato è l’anticipazione dell’editoriale della rivista bimestrale QualEnergia (n.2/2019).
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