Cosa è andato storto alla CoP 25 di Madrid
Un sostanziale fallimento, un’occasione persa (l’ennesima occasione persa), un nulla di fatto: questo il tenore dei commenti che stanno circolando in queste ore sulla CoP 25 di Madrid, tanto che il presidente delle Nazioni Unite, António Guterres, ha detto di essere “contrariato” per l’esito della venticinquesima conferenza mondiale sul clima.
Che cosa (non) si è deciso nella capitale spagnola? Perché la CoP è stata così deludente?
Il principale nervo scoperto, che ha fatto deragliare ogni tentativo di negoziato, è l’insieme di regole da “cucire” intorno all’Articolo 6 dell’accordo di Parigi siglato nel 2015. Queste regole sono le tessere mancanti per una politica globale realmente in grado di combattere il cambiamento climatico.
Difatti, l’Articolo 6 prevede diversi meccanismi volti a ridurre le emissioni cumulative di anidride carbonica, tra cui in particolare un nuovo mercato internazionale del carbonio (carbon market) per favorire lo scambio di quote di CO2 tra diversi paesi.
L’importanza dell’Articolo 6 è tale da averlo trasformato in un punto “make or break” dell’intero meccanismo messo in moto a Parigi quattro anni fa: con, o senza, quelle regole, o con regole scritte male, si può “fare piuttosto che rompere” tutto il resto dell’accordo.
Anche perché definire un mercato del carbonio su scala globale è tutt’altro che semplice e richiederebbe una cooperazione tra paesi assai maggiore in confronto a quella dimostrata in Spagna; ad esempio, alcune scappatoie potrebbero indebolire un simile mercato, tra cui soprattutto la possibilità che le riduzioni di CO2 siano conteggiate due volte tra nazioni differenti (double counting).
In altre parole, un mercato internazionale della CO2 dovrebbe garantire una riduzione netta complessiva delle emissioni inquinanti, evitando che un “taglio” delle emissioni in un paese sia poi vanificato da un incremento della CO2 in un altro paese.
Ci sono altri nodi irrisolti.
In particolare, non c’è stato un vero passo avanti sul meccanismo “loss and damage” per incrementare il sostegno finanziario delle nazioni più ricche e sviluppate alle economie più povere del Pianeta, in modo da aiutare queste ultime a realizzare progetti nelle energie pulite e nella tutela ambientale.
Il testo finale della CoP 25 si limita a “ricordare” l’impegno di mobilitare 100 miliardi di dollari l’anno entro il 2020 per sostenere le nazioni in via di sviluppo e a “riconoscere” il bisogno urgente di aumentare il supporto finanziario a queste nazioni.
Il testo in definitiva continua a ripetere le stesse cose delle conferenze precedenti: soprattutto, si enfatizza con notevole preoccupazione l’urgente necessità di colmare il divario tra gli impegni presi finora dai singoli governi e l’obiettivo di limitare a +1,5-2 gradi l’aumento delle temperature medie, in confronto all’età preindustriale.
Si tratta insomma di colmare quel divario enorme tra “scienza” e “realtà” che il programma ambientale delle Nazioni Unite (Unep) ha rimarcato pochi giorni prima che iniziasse la CoP 25.
Al momento, secondo gli scienziati del clima, il nostro Pianeta sta andando verso un incremento delle temperature di circa 3,2 gradi entro la fine del secolo.
Tuttavia, nemmeno la conferenza di Madrid, la più lunga nella storia delle conferenze sul clima, quella che avrebbe potuto, e dovuto, rappresentare una svolta nei negoziati, ha voluto ascoltare seriamente i campanelli d’allarme rilanciati dalla comunità scientifica.
Per l’ennesima volta, tutto è rimandato alla volta successiva, alla CoP 26 che si terrà a Glasgow a novembre 2020, quando i paesi saranno tenuti a presentare nuovi piani più ambiziosi per tagliare le emissioni.
La CoP 26, infatti, dovrebbe segnare la piena attuazione degli accordi parigini.
In linguaggio tecnico si parla di NDC, Nationally Determined Contributions, i contributi nazionali volontari con cui contrastare il cambiamento climatico in linea con l’accordo di Parigi.
Contributi ampiamente deficitari, come sottolineava l’Unep, perché la traiettoria delle emissioni di CO2 sta salendo anziché diminuire.
Non resta che vedere se nei prossimi 12 mesi le nazioni di tutto il mondo sapranno raccogliere davvero la sfida dell’urgenza climatica, oppure se continueranno a nascondere la testa nella sabbia di finti progressi, dibattiti inconcludenti e conferenze che rimandano ad altre conferenze.
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