Green New Deal o Grey New Deal in salsa italiana?
Se da un lato tiene banco, a livello mediatico interno il Green New Deal proposto dal Governo Conte bis con tasse ecologiche come la plastic tax, sui veicoli inquinanti, dall’altro, in Europa, dove si prendono una serie di decisioni fondamentali, lo stesso Governo si astiene su decisioni importanti come quelle riguardanti la nuova policy della Bei sulle infrastrutture fossili.
Si direbbe che si vogliano dare, circa le politiche ambientali del Governo, segnali diversi a target differenti.
Recentemente è arrivato il risultato della prima asta sul capacity market che ha visto un risultato imbarazzante. Su 40,9 GW solo uno è andato alle rinnovabili, anche perché l’eolico era stato quasi completamente escluso ed è “interessante” il fatto che nel comunicato presente sul sito del MiSE si definisca l’idroelettrico una fonte intermittente.
Oltre a ciò, per quanto riguarda la nuova capacità pare da indiscrezioni che abbia fatto man bassa la generazione elettrica diesel.
A ciò aggiungiamo che i sussidi fossili sono ancora saldamente al loro posto – e ci rimarranno poiché nella Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza 2019 è citata solo la loro “riduzione” – e l’attività di Eni sullo sfruttamento delle risorse fossili prosegue a grande velocità.
La compagnia del cane a sei zampe ha accelerato i tempi di realizzazione delle infrastrutture per lo sfruttamento del giacimento metanifero di Zohr al largo dell’Egitto comunicando trionfalmente il raggiungimento della piena produzione con cinque mesi d’anticipo.
Il quadro è chiaro ma non ancora completo. Già, perché sulle rinnovabili dopo il decreto Fer 1, che è la sostanziale fotocopia di quello redatto dall’ex ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda con la meritoria aggiunta, opera del ministro Sergio Costa, sull’incentivo fotovoltaico/amianto, siamo nel porto delle nebbie.
Tracce del Fer 2, decreto che dovrebbe incentivare le rinnovabili innovative non se ne trovano nemmeno nei cassetti del MiSE, ci riferiscono fonti interne al ministero e sulle nuove installazioni 2019 siamo molto distanti da ciò che ci servirebbe per raggiungere gli obiettivi europei.
Nei primi sei mesi del 2019 sono state installate nuove rinnovabili per 744 MWe. Volendo raddoppiare questa cifra per tutto l’anno – 1.488 MW – siamo ancora molto distanti dai 4,5 GW annui calcolati un paio d’anni fa su queste pagine da G.B. Zorzoli.
Nel frattempo, proprio sull’industria delle rinnovabili aumenta la desertificazione. Dopo aver perso la manifattura del fotovoltaico, non aver tentato quella dell’eolico e affossato l’accumulo e l’efficienza energetica con la vendita ai giapponesi, ora è il turno del solare a concentrazione.
La Angelantoni, infatti, ha annunciato la chiusura dello stabilimento di Massa Martana, in Umbria, dei tubi concentratori a sali fusi – brevetto Enea – e il trasferimento in Cina. Motivo è la mancata partecipazione all’asta per il solare a concentrazione degli Emirati Arabi da diverse centinaia di milioni di dollari che richiedeva, per la partecipazione, almeno un impianto commerciale funzionante, come credenziale tecnica. L’Italia non ne ha nemmeno uno. Il tutto a causa delle opposizioni a livello locale.
Così, nonostante ci sia la possibilità di sbarcare in Cina, Emirati Arabi, Kuwait, India, Sud Africa, Marocco e Stati Uniti che hanno progetti per potenze installate al 2030 dell’ordine di diverse decine di migliaia di megawatt, il solare termico (tecnologia che produce anche di notte grazie all’accumulo termico dei Sali), lo stabilimento umbro costato 80 milioni di euro, il brevetto italiano e 100 posti di lavoro, emigrano in Cina, dove per far installare questo tipo d’impianti il governo del gigante asiatico impone
la realizzazione della componentistica centrale nella nazione. Chapeau!
Se non fai politica industriale – green – qualcun altro la farà al tuo posto, ma per sé. «È la globalizzazione, bellezza! La globalizzazione! E tu non ci puoi far niente! Niente!», si potrebbe dire parafrasando Humphrey Bogart, nella scena finale de “L’ultima minaccia – Deadline” film del 1952.
Ma non è vero. Sarebbe bastato stampare, al momento giusto e non in ritardo, poche pagine sulla Gazzetta Ufficiale, per salvare tecnologia, esportazioni e posti di lavoro.
A tutto ciò dobbiamo aggiungere il deludente e tendente al gas fossile Pniec, con ciliegina sulla torta il caso Ilva, per il quale il presidente del Consiglio dei Ministri ha chiesto in pubblico qualche idea ai ministri.
Anche solo leggendo superficialmente i casi di Pittsburg o di Essen, due centri dell’acciaio inquinanti e obsoleti che sono stati sul serio chiusi e riconvertiti alla green economy, ci si rende conto della distanza abissale tra i due approcci.
Su Taranto e la sua riconversione non si trovano idee concrete e siamo, come nei decenni scorsi, fermi alla contrapposizione lavoro vs. ambiente.
E se a questo governo si potrebbe concedere l’alibi di essere in carica da poco tempo, per prendere dei provvedimenti esecutivi rispetto a tutto ciò, bisogna dire che segnali concreti sono minimi, oltre alle parole del capitolo dedicato al Green New Deal della Nota di aggiornamento.
Potremmo sperare nel dibattito parlamentare, ma anche qui i segnali da parte delle forze politiche sono pochi.
In molte forze politiche, escluse quelle del centrodestra “storico”, per cavalcare l’onda verde di Greta Thunberg e il New Green Deal della statunitense democratica Alexandria Ocasio-Cortez, hanno scritto programmi, lettere d’intenti e articoli sull’argomento che ad un’analisi appena un poco più approfondita sono “copia e incolla” sull’argomento ambiente di carattere nazionale.
Nessuna cifra, nessun trend, nessuna analisi originale. Eppure, in questi anni qualche istituto di ricerca – cito come esempio assolutamente non esaustivo lo studio Ambrosetti sulla mobilità elettrica – qualche analisi sull’Italia rinnovabile e sostenibile l’ha prodotta e ne abbiamo scritto su queste pagine. Ma la logica essenziale sembra il mordi, fuggi e scappa, con i voti. Forse.
Cosa servirebbe? Servono indagini sulla realtà economico/sociale del Paese che si incrocino con delle politiche industriali e sociali accurate tese a superare i vari porti delle nebbie nei quali siamo incagliati, serve mettere a punto metodologie di “protezione” delle eccellenze sia intellettuali, sia industriali green italiani.
E servono soprattutto ricette originali di prima mano, tagliate in maniera sartoriale sul Green italiano – come afferma spesso il nostro direttore scientifico Gianni Silvestrini – anche perché come affermano i dati citati da Silvestrini nelle prime righe dell’editoriale la “nostra casa sta bruciando” e le fiamme sono ancora più alte lungo lo stivale.
Se non prenderemo provvedimenti il nostro Green New Deal si trasformerà rapidamente in un Grey New Deal. Color cenere, per l’appunto.
Questo articolo è stato pubblicato sul n.5/2019 della rivista bimestrale QualEnergia, con il titolo “Grey New Deal”.
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