Contro l’uscita dal carbone al 2025, una battaglia di retroguardia della Sardegna
Sull’energia questo paese non riesce ancora a scrollarsi di dosso un’idea vecchia di fare elettricità: fonti fossili e grandi centrali.
Ancorata a questo modello è anche la Sardegna e la sua classe politica, che invece di pensare ad approccio diverso, da smart island, viste le risorse naturali presenti nella regione, resta legata alla conservazione energetica.
A prescindere dalla complessa questione di voler vedere la realizzazione di una infrastruttura per la “metanizzazione” dell’isola, di cui abbiamo parlato e parleremo ancora, la giunta continua la sua difesa della sua generazione elettrica a carbone.
Il 6 febbraio la decisione dell’esecutivo sardo di un ricorso davanti al Tribunale Amministrativo Regionale contro il decreto del Direttore Generale per le Valutazioni e le Autorizzazioni Ambientali del Ministero dell’Ambiente che vuole iniziare ad attuare in tempi rapidi lo scenario di “phase out completo” dall’impiego del carbone per la produzione di energia termoelettrica entro il 31 dicembre 2025, come indicato anche dalla SEN e dal recente Piano Clima Energia.
L’uscita dal carbone in Sardegna riguarda quindi la chiusura (o ricoversione) delle centrali di Portovesme e di Fiumesanto (vicino Porto Torre) entro i prossimi 7 anni.
La preoccupazione dell’esecutivo sardo riguarda l’impatto economico che questa decisione potrebbe avere sui lavoratori e sull’indotto della regione; una preoccupazione emersa anche da uno studio dell’Istituto Affari Internazionali (vedi pdf) che propone di uscire dal carbone solo entro la metà del secolo, come chiede, ovviamente, anche Assocarboni per salvare le 12 centrali ancora funzionanti nel nostro paese.
Una posizione di retroguardia a cui hanno aderito tutte le sigle sindacali di settore.
Insomma, la vecchia e classica tattica dilatoria, per proteggere gli interessi di chi gestisce queste centrali e usare la tradizionale arma del ricatto occupazionale.
Non basta raddoppiare il limite di utilizzo del territorio per realizzare nuovi impianti fotovoltaici o solari termodinamici nelle aree industriali come ha fatto una recente delibera regionale. Serve molto di più.
Dichiararsi favorevoli alla decarbonizzazione dell’economia regionale, come fa anche il presidente della Sardegna, e non proporre subito, in questa delicata fase storica, una strategia per favorire gli investimenti necessari ad uscire realmente da questa fonte sporca e climalterante, è veramente un modo di venire incontro alla propria comunità?
Secondo il WWF Italia, ad esempio, non ci sono ragioni tecniche che impediscano, con un così adeguato preavviso, di predisporre soluzioni che permettano di transitare dal carbone alle fonti rinnovabili garantendo, al contempo, il mantenimento dei livelli occupazionali e delle garanzie sociali.
L’associazione ambientalista ricorda inoltre che la Sardegna è in surplus in fatto di produzione elettrica: consuma infatti circa 8,4 TWh ogni anno, mentre ne riesce a produrre 13,3: dunque un terzo viene di fatto “esportato” nel continente.
Secondo molti analisti favorevoli alla transizione energetica verso le rinnovabili sarebbe proprio l’attuale assenza di gasdotti con il continente e la prossima chiusura delle vecchie centrali a carbone che potrebbe fare dell’isola un innovativo “laboratorio della decarbonizzazione”, un esempio a livello europeo e mondiale.
Secondo alcuni nostri calcoli in Sardegna ci sono le condizioni per produrre oltre un terzo di questa richiesta annuale di energia elettrica (3 TWh/anno) solo con il fotovoltaico. Basterebbe una potenza operativa di circa 2.200 MW, circa 2,8 volte l’attuale installato presente nella regione (785 MW), con un’occupazione di suolo (se ipoteticamente venisse fatto solo a terra) inferiore allo 0,1% del territorio.
E poi c’è l’energia del vento, una risorsa importantissima per la regione: raddoppiare l’attuale installato di eolico, passando dagli attuali 1.070 MW ad almeno 2.000 MW, tra interventi repowering e nuove turbine, darebbe all’anno una produzione di 4 TWh.
Ecco quindi che almeno l’80% della domanda elettrica verrebbe soddisfatta con solare FV ed eolico, sempre con grande attenzione all’impatto paesaggistico. Si potrebbe fare entro il 2030, cioè nei prossimi 12 anni, in linea con gli obiettivi nazionali.
Contestualmente per gestire questa generazione intermittente bisognerà lavorare sul lato della domanda, investendo in smart grid, realizzare qualche impianto solare termodinamico, accumuli elettrochimici e termici, pompaggi, anche stoccaggio del metano ottenuto per sintesi dalle rinnovabili per gestire le fluttuazioni della produzione solare ed eolica, elettrificazione dei trasporti, non dimenticando il contributo che solare termico (anche per le diverse aziende agroalimentari dell’isola) e biomasse potrebbero fornire al sistema energetico regionale.
Una transizione possibile e graduale, ma decisa e costante che avrebbe, in questo caso, un impatto veramente positivo su ambiente, occupazione e reddito locale.
Pensiamo solo alla Costarica che ha consumi elettrici annuali leggermente superiori alla Sardegna, intorno agli 11 TWh (anche se per il 70% li soddisfa con l’idroelettrico); quel paese copre oggi oltre il 90% del suo fabbisogno con le rinnovabili.
È una questione di strategia. Non si può pensare di muoversi in questa direzione se si resta bloccati per anni a sostenere centrali vetuste e inquinanti o creare nuove infrastrutture per le fonti fossili. Ormai deve essere chiaro: o si va da una parte oppure dall’altra.
Non è solo una questione tecnologica e di interessi economici in gioco, ma anche culturale. Ad esempio il Comitato “No Metano Sardegna”, che è contro la metanizzazione dell’isola, appoggia la Regione nel contrasto ad alcuni progetti per la produzione di energia da rinnovabili. Molti sembrano proprio non crederci.
Questa schizofrenia, dall’alto e dal basso, sulle scelte energetiche della Sardegna è ben illustrata da una ricerca sociologica sulla transizione nell’isola curata da Giorgio Osti professore associato di Sociologia dell’ambiente e del territorio all’Università di Trieste.
Osti spiega come le caratteristica tipiche di indipendenza e identità del popolo sardo, in campo energetico sono rimaste confuse e incapaci di sostenere fattivamente investimenti nelle rinnovabili. “L’identità sarda, nonché il carattere pugnace degli abitanti dell’isola – argomenta – non ha ‘sfornato’ né una massiccia campagna di installazione di micro-impianti, come il fotovoltaico, né una massiccia adesione all’azionariato energetico, così come è successo per l’eolico in molta parte del nord Europa, lasciando peraltro campo libero a investimenti esterni o interni poco interessati alle ricadute locali della produzione sostenibile di energia”.
Forse oggi ci sono le condizioni per cambiare il destino energetico, e non solo, di questa stupenda terra.
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