Due criticità degli accumuli: il riciclo e la carenza di cobalto
Ogni volta che sulla rete si apre una discussione riguardante le auto elettriche arriva una valanga di commenti contrari, che vanno dal poco informato (“Raddoppieranno i consumi di energia”), al complottismo (“È solo un’operazione di marketing”) fino al surreale (“Si pensi piuttosto alle navi da crociera!”).
Non mancano però quelli più fondati, e fra questi ci sono quelli che sottolineano i due più grossi problemi degli accumulatori elettrici da cui questi veicoli dipendono: usano il raro e eticamente discutibile cobalto e sono complicati da riciclare.
Riciclare gli accumuli
In realtà il tema del riciclo delle batterie al litio non nasce certo con le auto elettriche, visto che sono venti anni che queste batterie fanno funzionare miliardi di dispositivi elettronici portatili, senza che ci si sia posti il problema, ma il fatto che ora le auto elettriche si facciano “per ragioni ambientali”, ha evidentemente aguzzato la sensibilità verso questo argomento.
E, in effetti, se milioni di veicoli elettrici solcheranno le strade dei prossimi decenni, tempo 10-15 anni e ci troveremo a gestire il riciclo di altrettanti accumulatori giganti, ognuno pesanti diversi quintali (quello più capiente della Tesla, pesa addirittura mezza tonnellata…).
L’impatto in parte sarà rimandato grazie al riutilizzo di questi dispositivi per compiti meno gravosi, come la gestione dei carichi di rete, ma prima o poi le batterie finiranno la loro vita e bisognerà riciclarle.
Molti laboratori stanno occupandosi del problema, fra cui anche il CNR in Italia, ma la questione è complicata perché le batterie mettono insieme litio, grafite, elettrolita organico, cobalto, rame, alluminio, plastica, che poi separare e recuperare o smaltire in modo corretto non è facilissimo.
Il più famoso di questi componenti, il litio, per esempio, al momento non si è ancora capito come potrebbe essere riciclato in modo economico, e quindi lo si accumula aspettando un’innovazione tecnologica che risolva il problema.
Più facile invece recuperare gli altri metalli, che hanno un notevole valore di mercato: le società finlandesi Fortum e Crisolteq, per esempio, affermano di aver messo a punto un procedimento che recupera l’80% del peso delle batterie, contro il 50% in media attuale, e in particolare tutti i metalli di alto valore.
In questa discussione, però, spicca il silenzio dei grandi produttori di batterie o di auto elettriche, che dovrebbero in teoria impegnarsi a tappare questo buco di sostenibilità dei loro prodotti.
Con l’eccezione di Tesla, che ha comunicato, nel suo “Impact Report” (pdf), il lancio di un programma per riportare nelle sue fabbriche di batterie i suoi modelli, e lì smontarle per riutilizzarne i componenti in nuove batterie.
Scrive Tesla nel suo report: “Un’importante differenza tra i combustibili fossili e le batterie è che quando il petrolio viene estratto dal terreno, raffinato e poi bruciato, rilascia emissioni nocive nell’atmosfera che non possono essere recuperate. I materiali della batteria, al contrario, possono essere raffinati e rimessi in una cella, e rimarranno lì fino alla fine della loro vita, quando potranno essere riciclati e riutilizzati ancora e ancora”.
Un approccio che ricorda quello di SpaceX, la compagnia spaziale di Elon Musk, che riutilizza i razzi con cui lancia satelliti in orbita.
Tesla afferma di aver già messo a punto il procedimento necessario nella sua prima Gigafactoy in Arizona, dove “il recupero dei materiali più critici, come litio e il cobalto, sarà massimizzato, mentre si riutilizzeranno i componenti di rame, alluminio e acciaio nei nuovi accumuli”.
Secondo la società americana, tutto questo porterà non solo a un drastico calo delle emissioni connesse con la fabbricazione delle batterie, ma anche un notevole risparmio economico.
Il che, se sarà dimostrato, dovrebbe spingere anche le altre case automobilistiche, a intraprendere programmi simili, eliminando così uno dei più grossi ostacoli di sostenibilità dell’auto elettrica.
La carenza di cobalto
Il riciclo, però, non sarà sufficiente a risolvere il secondo dei problemi di cui si parlava all’inizio, quello della carenza di cobalto, un metallo piuttosto raro, che ha anche il grande problema di provenire per metà dalla Repubblica Democratica del Congo, dove vengono spesso usati bambini come minatori e dove le miniere illegali alimentano corruzione e guerre.
Questo metallo, quindi, crea un problema alla “verde” industria dell’auto elettrica, non dissimile a quello dell’olio di palma per quella alimentare, spingendo così l’idea di batterie “cobalt free”.
Il cobalto, come ossido, forma (da solo o con altri metalli come nichel e manganese) il catodo della batteria, quello dove gli ioni litio cedono il loro elettrone durante la scarica.
Fra i tanti materiali che possono svolgere questo compito il cobalto è il migliore, perché può accogliere nel suo reticolo cristallino tanti ioni litio, e non si degrada con il loro entrare ed uscire. Così le batterie litio-cobalto, avendo una lunga vita e un’alta densità di carica (intorno a 200 Wh/kg), sono oggi le più adatte per i trasporti elettrici.
Il punto è che, a parte i problemi etici, di cobalto nel mondo ce ne sono riserve stimate per circa 6 milioni di tonnellate, e una batteria per l’auto elettrica ne contiene circa 10 kg: se fosse usato solo per questo scopo il cobalto basterebbe per “appena” 600 milioni di auto, ma ovviamente ha molti altri usi (leghe, in primis) e quindi non sarà sufficiente, sul lungo termine, per la transizione verso i trasporti elettrici.
Inoltre, ai ritmi attuali di estrazione e di aumento della domanda, l’offerta di questo metallo sul mercato potrebbe diventare insufficiente già a partire dal 2025, come ha rivelato un rapporto del Joint Research Centre della Commissione Europea.
Certo, si sa che le previsioni di scarsità di questa o quella materia prima spesso sono errate, perché con l’aumento dei prezzi (quello del cobalto è già quasi triplicato fra 2016 e 2018), aumenta anche lo sforzo per estrarre la risorsa da giacimenti meno ricchi.
Nel caso del cobalto, per esempio, Maha Haji del MIT, ha scritto sulla Renewable and Sustainable Energy Reviews che la soluzione sia addirittura di estrarlo dall’acqua di mare, che ne contiene 500 milioni di tonnellate.
Il sistema è semplice: immergere in acqua spugne di materiali organici, come la buccia di limone, che hanno la proprietà di assorbire preferibilmente questo metallo. Dopo un mese le spugne sono estratte e mandate in fonderia.
Secondo Haji con 150 punti di raccolta, dotati di migliaia di spugne l’uno, si potrebbero alimentare un milione di auto elettriche.
Ma forse c’è una soluzione ancora più semplice: fare a meno del cobalto, trovando altri materiali con caratteristiche simili.
Ciò è più facile per le batterie statiche, dedicate all’accumulo per la rete, che richiedono minori densità di carica: Sonnen, per esempio, ha già tutti i suoi accumulatori domestici etichettati Cobalt free, visto che usa la tecnologia del litio-ferro-fosfato.
Ma anche le case automobilistiche cominciano a muoversi, trainate dalla solita Tesla, che non perde occasioni per mostrarsi all’avanguardia nell’affrontare ogni problema legato ai suoi prodotti.
Le nuove Tesla Model 3, usano batterie, ideate con Panasonic, che hanno solo il 3% in peso di cobalto, contro il 7,5% dei modelli precedenti (e il 13% circa dei modelli standard di batterie litio-cobalto), grazie a nuove combinazioni con il nichel, un metallo più abbondante (130 milioni di tonnellate di riserve note) e più largamente distribuito sul pianeta.
Ma la riduzione è solo il primo passo: Panasonic ha annunciato che sta già lavorando a modelli che faranno completamente a meno del problematico metallo.
Anche qui, speriamo, che le altre case automobilistiche seguano l’esempio.
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