Energie dal mare: lo stato delle cose e il laboratorio del Mediterraneo
L’Europa è sostanzialmente una complessa penisola dell’Asia, circondata da oceani e mari. Quasi tutti i suoi paesi, quindi, sono situati accanto a una fonte di energia rinnovabile enorme: il movimento di onde e correnti.
Finora, però, lo sfruttamento di questa fonte, pensato per la prima volta negli anni ‘70, ha prodotto tante idee, montagne di studi, congressi, rapporti e qualche dozzina di prototipi. Ma di chilowattora marini, per ora, se ne sono visti ben pochi, a prezzi astronomici, e accompagnati da un corollario fallimenti. Solo 17 MW di impianti energetici marini sono attualmente in funzione, per lo più a scopo sperimentale.
«Il panorama passato non è molto esaltante, in effetti, si è investito molto in progetti che poi hanno deluso», dice Gianmaria Sonnino, fisico dell’Enea e responsabile, per le energie dal mare in Italia dello Strategic Energy Technology Plan (Setplan) europeo, che dovrà determinare le tecnologie migliori per le varie fonti, e quanta energia ci si possa aspettare da esse al 2025 e al 2030.
«Ma da ora ai prossimi 5 anni ricerca e industria si dovranno dare molto da fare, perché il Setplan prevede che al 2025 si siano sviluppate tecnologie di livello commerciale per lo sfruttamento delle correnti ed entro il 2030 che siano disponibili anche quelle per le onde, così che nel decennio successivo un 20% dell’energia europea arrivi dal mare».
Possibile che in così poco tempo, i mari europei si riempiano di strani macchinari destinati trasformare i movimenti dell’acqua in elettricità?
A leggere il rapporto “Identification of future emerging technologies in the ocean energy sector” (allegato in basso), appena redatto dal Joint Research Center della Commissione Europea, con sede a Ispra, dopo aver consultato sei mesi fa una lunga lista di esperti, le tecnologie energetiche marine ai blocchi di partenza sono decine, dalle più conosciute a quelle più fantasiose.
Il Jrc divide le tecnologie sostanzialmente in due categorie, correnti e onde (ce ne sarebbe in realtà una terza, quella che sfrutta la differenza termica fra superficie e abissi marini, ma in Europa pare che a nessuno sia venuto in mente di sfruttarla), e poi in ulteriori due sottocategorie: tecnologia di prima generazione e tecnologie innovative.
Fra le tecnologie più mature per l’energia da correnti ci sono quelle basate su grandi turbine a elica, simili alle eoliche, fissate al fondo. Ce ne sono già in funzione alcune a nord della Scozia, ma la loro energia, soprattutto a causa degli elevati costi di manutenzione, è molto cara.
Per questo si spera in tre filoni di miglioramento:
- turbine che funzionino nei due sensi nel caso di correnti indotte dalle maree;
- turbine montate sotto a galleggianti (si riducono i costi di manutenzione, ma esponendo l’impianto alle tempeste);
- turbine attaccate a cavi (come Gem dell’Università di Napoli, pensato per lo Stretto di Messina).
Poi ci sono concetti completamente nuovi, e un po’ folli, come sfruttare le correnti usando “anguille” di gomma, che producono elettricità ondulando, ad “aquiloni” subacquei fino a impianti ispirati alle vele o alle pinne dei pesci. Concetti che, in teoria, dovrebbero migliorare l’efficienza e diminuire i costi degli impianti con materiali più leggeri e che richiedono meno manutenzione.
Panorama analogo, ma forse persino più vario, per quanto riguarda le onde, che offrono, in teoria il vantaggio di avere impianti meno costosi e più accessibili di quelli per le correnti.
Qui, la prima generazione, quella che sfrutta le onde con meccanismi galleggianti, che usano il movimento per azionare generatori o pompare liquidi in turbine, bisogna dirlo, ha fallito miseramente: non ci sono impianti funzionanti, e certi prototipi su cui si era sperato, e investito, molto, come il Pelamis, sono finiti in pezzi alla prima tempesta.
Si stanno però testando sviluppi di questa idea di base, facendo tesoro di quelle prime esperienze negative, riducendone, si spera, la fragilità.
In parallelo procedono prototipi che sfruttano la forza delle onde contro muraglioni in cemento, come quelli dei porti, per fargli “pompare”aria in un condotto, così che muova una turbina. L’esperienza di un impianto di questo tipo nel porto di Civitavecchia, progettato dai ricercatori dell’Università di Reggio Calabria Mediterranea, sembra stia dando buoni risultati.
Un altro progetto simile, della seconda Università di Napoli, Dimemo, è in funzione da pochi mesi nel porto partenopeo.
Anche nel caso delle onde ci sono idee più fantasiose in cantiere, come usare membrane di polimeri che producono elettricità flettendosi, fino a tubi posti in superficie o sul fondo che vengono compressi dal peso dell’onda su di loro.
E, naturalmente, ci sono anche i sistemi dove un “pendolo”, oscillando con le onde, muove un generatore , come quelli progettati dal Politecnico di Milano e dal Pewec ideato dallo stesso Sannino: «Le prove condotte a Pantelleria hanno dato buoni risultati, ora il dispositivo è in fase di perfezionamento».
Incredibilmente il rapporto Jrc non ha incluso la macchina H24 di Michele Grassi , che al tempo stesso è uno dei concetti più originali e promettenti per sfruttare le onde, ed è anche l’unica già funzionante e che immette energia in rete.
«Conosciamo la H24. Ma il nostro rapporto non voleva essere un panorama completo, ma piuttosto identificare gli approcci innovativi che possano consentire la riduzione dei costi dell’energia, e così indicare aree dove investire ulteriori risorse» dice Davide Magagna del Jrc, una risposta che rende però ancora più inspiegabile l’esclusione.
Comunque il settore è tutto in movimento.
«Vi garantisco, anche se non posso dare dettagli per motivi di riservatezza – dice Sannino – che industrie e laboratori stanno preparando numerose sorprese per i prossimi mesi e anni, con prototipi altamente innovativi, che verranno via via svelati da qui al 2025. Per fortuna, l’Italia è fortemente presente: non solo siamo fra i 10 paesi che lavorano al Setplan europeo del settore, ma abbiamo anche uno specifico progetto chiamato PELAGOS Blue Energy Cluster, che riunisce sette paesi del Mediterraneo e industrie del calibro di Eni, Fincantieri o Enel, intorno a progetti specifici nei nostri mari e non nei soli oceani come era stata finora».
In effetti si potrebbe pensare che il Mediterraneo non sia molto adatto a queste energie, destinate piuttosto a paesi come l’Irlanda o la Scozia, che hanno mari molto più “energetici” dei nostri.
«In parte è vero, loro hanno onde e correnti più forti e più costanti. Ma le risorse mediterranee non sono affatto trascurabili, solo che hanno bisogno di impianti più raffinati, flessibili e smart per essere sfruttati. Impianti che poi potranno essere adattati anche alle condizioni oceaniche, fornendo maggiore efficienza, mentre fare il contrario è molto più difficile».
Così l’Italia ha proposto all’Europa di creare in Italia un secondo laboratorio per lo studio dell’energia marina, dopo quello esistente alle Orcadi, in Scozia.
«Potremmo anche farne diversi, uno in un porto, uno in un luogo con correnti e uno in una costa con molte onde, così da testare ogni possibile tecnologia. Questi laboratori mediterranei, oltre a operare nelle condizioni dei nostri mari, sarebbero accessibili, per ragioni geografiche e meteo, molto di più di quello delle Orcadi. E se finora gli scozzesi si sono, diciamo così, ‘ispirati’ ai modelli che tutti dovevano portare da loro, pagando, per testarli, chissà che ora il flusso di idee e di risorse non possa invertirsi».
Ma, in definitiva, veramente al 2040 o giù di lì 20% dell’energia elettrica europea verrà dal mare?
«Io credo di sì, le potenzialità ci sono, e il meccanismo si è messo in moto. Una volta compiuto il processo di ‘convergenza tecnologica’, che ci permetterà di individuare le tecnologie migliori per ogni situazione, e averle industrializzate, anche per l’export, in questo settore l’Europa ha pochi rivali al mondo; il costo degli impianti, e quindi del kWh, dovrebbe crollare, garantendo una produzione elettrica rinnovabile, competitiva e molto più costante di quella da vento e sole. Certo servono in questa prima fase aiuti alla ricerca e incentivi generosi alla produzione. Peccato che in Italia stiamo ancora aspettando di sapere quanto saranno questi incentivi e senza quel dato gli investimenti in impianti funzionanti non partiranno».
Rapporto “Identification of future emerging technologies in the ocean energy sector”
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