Gli eventi estremi di cui non si parla: cosa insegna il ciclone del Mozambico?
I dati ufficiali parlano di alcune centinaia di morti (400 più o meno, vedi anche questa nota delle Nazioni Unite) ma il numero è destinato certamente a salire; il presidente del Mozambico, Filipe Nyusi, afferma che con ogni probabilità saranno più di mille le vittime del ciclone Idai.
Il ciclone Idai… l’evento meteorologico estremo che nei giorni scorsi ha sferzato diversi paesi dell’Africa centro-meridionale, soprattutto il Mozambico, lo Zimbabwe e il Malawi, con piogge torrenziali, inondazioni, venti fortissimi, distruzione di raccolti e allevamenti di bestiame, intere città allagate, migliaia di persone costrette a fuggire e ora rimaste senza casa.
In una nota della Croce Rossa Internazionale (International Federation of Red Cross, IFRC) si legge che dai primi rilevamenti sembra che il 90% della città portuale mozambicana di Beira sia stato completamente distrutto dall’acqua, con una scala delle devastazioni definita “enorme”.
Tutto questo succedeva a brevissima distanza da quelle manifestazioni sul clima che hanno concentrato l’attenzione di cittadini, politici e organi d’informazione sull’urgenza di agire per limitare gli effetti peggiori del cambiamento climatico.
Eppure, questa violentissima tempesta tropicale, che secondo l’ONU è stato uno dei disastri ambientali più gravi ad aver colpito l’emisfero meridionale del Pianeta (si parla di circa 2 milioni di persone coinvolte, in un’area geografica già molto vulnerabile in termini di risorse alimentari, assistenza sanitaria eccetera), non ha meritato lo stesso approfondimento che poche ore prima era stato dedicato agli scioperi degli studenti.
Precisiamo subito una cosa: saranno poi scienziati e climatologi a esaminare in dettaglio quanto accaduto in Africa, per capire se e quanto abbia influito il surriscaldamento terrestre sulla “forza” del ciclone Idai.
Da un numero crescente di studi sul clima, però, già sappiamo che la maggiore intensità e frequenza dei singoli eventi estremi (non solo tifoni, ma anche, all’opposto, ondate di calore, siccità e così via) è da attribuire almeno in parte alle trasformazioni climatiche in atto su scala globale.
Trasformazioni che, a loro volta, dipendono dalle attività umane, soprattutto dalla produzione e dall’utilizzo di combustibili fossili; si parla, infatti, di cambiamento climatico antropogenico.
Il punto, quindi, è che l’aumento delle temperature medie aumenta anche la probabilità che si scatenino tempeste perfette, o altri fenomeni meteorologici di vasta portata con relativi impatti sugli ecosistemi e sulle persone che li abitano.
Ecco perché gli eventi estremi erano al centro del dibattito negli scioperi sul clima; il relativo silenzio sulle vicende del Mozambico e dei paesi vicini si può spiegare in vari modi, anche semplicemente richiamando la regola giornalistica secondo cui “valgono” di più (dal punto di vista dell’interesse mediatico) pochi morti nel proprio paese che centinaia di morti in un luogo lontano.
Così è facile che nella gerarchia delle notizie un ciclone nell’Africa australe finisca per essere superato da molti altri argomenti; e poi sappiamo con quanta velocità certi temi siano inclini a scomparire dalle tv e dai giornali. Il cambiamento climatico non fa eccezione: se ne discute, certo, sempre di più, ma spesso senza quella visione globale che, invece, sarebbe indispensabile per capire realmente la portata delle sfide che ci troviamo davanti.
Sfide che riguardano tutti, e in modo particolare quelle popolazioni più povere e più esposte alla violenza dei cambiamenti climatici: il contributo del Mozambico all’inquinamento atmosferico planetario è una frazione irrisoria, rispetto alle emissioni di gas-serra di paesi come la Cina o gli Stati Uniti.
Tuttavia, in molti casi sono le nazioni meno sviluppate e più lontane da noi a essere devastate per prime; questo non significa che gli altri siano al sicuro, casomai il contrario, una ragione più che sufficiente per rimettere in cima all’agenda delle notizie i fatti del Mozambico, con le loro conseguenze e implicazioni.
O i fatti dell’Australia, per fare un altro esempio di un paese distante ma avanzato sotto il profilo economico-industriale: quanti saranno gli italiani a sapere che a gennaio un’ondata di calore eccezionale ha interessato quasi tutto il continente, con temperature sopra 40 gradi centigradi per molti giorni di fila, tanto da essere definita “anomala” per la sua intensità e persistenza dall’ufficio meteo del governo australiano?
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