Il termometro climatico e le risposte di governi e imprese
La primavera dell’Alaska è stata la più calda da quando si registrano le temperature, ben 2,2 °C sopra i livelli di 40 anni fa. E a giugno la Groenlandia la superficie di ghiaccio in fusione ha raggiunto livelli record.
Tutto ciò, mentre l’India è stata colpita quest’anno da 32 ondate di calore con temperature che in alcuni centri hanno superato i 50 °C.
Insomma, da ogni parte del pianeta arrivano segnali di un’accelerazione della crisi climatica.
Di fronte alla gravità della situazione, alcuni paesi definiscono obbiettivi più incisivi. Altri Governi, scettici rispetto alla gravità del cambiamento climatico, dagli Usa al Brasile, dall’Arabia Saudita alla Russia, si dimostrano timidi e inadeguati.
Ma questo 2019 ha visto soprattutto una clamorosa spinta dal basso, con scioperi per il clima e manifestazioni di centinaia di migliaia di giovani, in grado di incidere sulle istituzioni.
Così, le iniziative di Exctintion Rebellion a Londra hanno portato il Parlamento a dichiarare all’unanimità lo stato di emergenza climatica e hanno spinto il Governo a varare un percorso per raggiungere la neutralità climatica nel 2050.
Altri Governi puntano ad una totale decarbonizzazione in tempi anche più brevi. La Svezia entro il 2045 e il nuovo governo finlandese uscito da una campagna elettorale nella quale la crisi climatica è stata centrale e che vede al suo interno tre ministri verdi, ha deciso di uscire dai fossili addirittura nel 2035.
Se va rilevato che Regno Unito, Svezia e Finlandia hanno (per ora) delle centrali nucleari, questo non vale per altri paesi, come la Danimarca che punta ad una totale decarbonizzazione a metà secolo grazie alle sole rinnovabili e a politiche di efficienza e sufficienza.
Ma tutti i paesi europei nei prossimi mesi dovranno presentare i propri piani climatici di lungo termine.
Dieci Governi hanno chiesto alla Commissione Ue di definire un obbiettivo europeo “zero carbon” al 2050. Mancano all’appello in questo gruppo di punta sia l’Italia che la Germania. Non stupisce la timidezza italiana, considerato che la Lega nel 2016 si è astenuta nel voto per la ratifica dell’Accordo di Parigi e che il Parlamento ha recentemente bocciato la mozione che chiedeva di dichiarare lo stato di emergenza climatica.
La situazione sta cambiando invece in Germania dopo il successo dei Verdi alle elezioni europee e con gli ultimi sondaggi che li posizionano al primo posto. La Merkel ha fatto autocritica ammettendo che il governo tedesco si è impegnato troppo poco per il clima.
Se in alcuni settori infatti i risultati sono stati positivi, come dimostra la corsa dell’elettricità rinnovabile passata in soli venti anni dal 5% dei consumi al 40%, le politiche sono state inadeguate in altri comparti, come quello dei trasporti. È quindi possibile che la Germania riveda la proprie posizioni, inclusi i tempi di decarbonizzazione della sua economia.
Passando dall’altra parte del pianeta, è interessante osservare come anche il Giappone, terza potenza mondiale, nelle scorse settimane abbia definito un piano per raggiungere la neutralità climatica entro la metà del secolo.
Lo sforzo per raggiungere questi risultati non è per niente banale, né è scontato che vengano raggiunti.
Nei prossimi 30 anni la dipendenza dai fossili dovrebbe infatti essere azzerata; uno scenario che implica l’obsolescenza di molte infrastrutture, dalle centrali elettriche ai rigassificatori, e la creazione di un nuovo sistema energetico intelligente, efficiente, decentrato e digitale.
Questa transizione comporta anche la necessità di prevedere sistemi di stoccaggio stagionale. In Italia, ad esempio, occorrerà utilizzare parte dell’elettricità solare per produrre idrogeno e poi metano attraverso processi Power to Gas. Uno scenario per il quale i tedeschi si stanno già attrezzando, come dimostra l’impianto P2G da 110 MW che diventerà operativo nel 2022.
Insomma, ci aspettano tempi delicati e, al tempo stesso, straordinari, considerando che la crisi climatica potrà essere vinta solo combinando le radicali trasformazioni tecnologiche con una revisione degli stili di vita e l’introduzione di significative modifiche al modello economico dominante. E, naturalmente, molti comparti industriali dovranno reinventarsi.
Transizione climatica: vincitori e vinti
Il mondo della generazione elettrica in Europa è stato sconvolto dall’irruzione delle fonti rinnovabili. Non ne ha capito subito la velocità e la portata subendo perdite di decine di miliardi di euro. È sorprendente però come la lezione sia stata metabolizzata e adesso alcune compagnie, ad iniziare dall’Enel, siano all’avanguardia della diffusione delle rinnovabili nel mondo.
La stessa rapida trasformazione coinvolgerà e stravolgerà nei prossimi 5-10 anni il mondo dell’auto. È dunque amaro constatare come FCA sia in forte ritardo nella corsa verso l’elettrico, tanto da far sperare in un’alleanza con un partner innovativo per recuperare il tempo perduto.
Considerando poi ineluttabile il declino del carbone, nel mondo dei fossili troviamo il nocciolo duro più resistente alle trasformazioni, quello delle oil&gas companies.
Papa Francesco ha incontrato nei giorni scorsi i loro vertici sollecitando l’avvio di una radicale transizione energetica.
Ma per queste multinazionali è più difficile mettere in discussione la loro stessa ragione d’essere. Se le utilities elettriche possono passare alle rinnovabili, e le case automobilistiche alla mobilità elettrica, il cambio di strategia delle società petrolifere è decisamente più complicato. Sono infatti costrette non tanto a cercare una soluzione interna al loro business, come può fare il mondo elettrico e quello della mobilità, ma a ricavarsi uno spazio in uno dei tanti ambiti aperti dalla decarbonizzazione.
Con la difficoltà però di dover cercare un equilibrio tra la contrazione del proprio proficuo business e i margini derivanti dai nuovi e a volte inesplorati percorsi.
La Shell, che dichiara di voler diventare fra un decennio leader della generazione elettrica, lancia un chiaro segnale.
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