In Cina era carbone, è carbone e sarà carbone
Per la Cina è proprio difficile abbandonare il suo modello di sviluppo economico agganciato al carbone.
Lo rivelano gli ultimi dati diffusi dalla rete di ricercatori indipendenti Global Energy Monitor: nel documento Out of Step gli autori Christine Shearer, Aiqun Yu e Ted Nace, evidenziano che in 18 mesi, da gennaio 2018 a giugno 2019, in Cina il parco di generazione elettrica a carbone è aumentato di 42,9 GW.
Al contrario, nel resto del mondo questa fonte fossile ha perso in totale circa 8 GW di capacità netta installata, perché in molti paesi si stanno costruendo meno impianti e si stanno chiudendo quelli esistenti (alcuni governi hanno deciso di chiuderli nei prossimi anni, ad esempio Italia e Germania). In altre parole, le dismissioni delle vecchie unità a carbone hanno superato le aggiunte di potenza.
Il grafico sotto, tratto dal rapporto di Global Energy Monitor, riassume questo quadro.
Il problema, si legge nello studio, è che tra 2014 e 2016 Pechino ha delegato alle autorità provinciali la possibilità di autorizzare nuove centrali a carbone; c’è stato un boom di progetti perché le singole province erano incentivate ad approvare e costruire queste centrali per raggiungere i loro traguardi economici.
Così oggi in Cina tra impianti in fase avanzata di costruzione e progetti temporaneamente sospesi, anche se destinati con ogni probabilità a essere riaperti, ci sono quasi 148 GW di carbone in cantiere, quasi lo stesso livello di capacità funzionante in tutta Europa con questo combustibile fossile (150 GW).
E se Pechino volesse rispettare le indicazioni dei climatologi delle Nazioni Unite (IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Change), puntando a limitare l’aumento medio delle temperature terrestri sotto 2 gradi entro la fine del secolo, dovrebbe ritirare la maggior parte delle sue centrali a carbone, anziché realizzarne di nuove. In pratica, secondo il Global Energy Monitor, la Cina dovrebbe scendere dal “tetto” attuale di 1.100 GW a 600 GW o anche di meno entro il 2030.
Peccato che i gruppi industriali premano per arrivare a 1.200-1.400 GW di carbone con il nuovo piano infrastrutturale al 2035 che sarà pubblicato il prossimo anno…
Insomma le contraddizioni abbondano, considerando che la Cina è anche il principale investitore mondiale in energie rinnovabili. Per il momento, Pechino non ha ancora scelto una direzione univoca: economia “verde” oppure continuamente incentrata sulle fonti energetiche tradizionali?
Un quadro globale
Contraddizioni analoghe si ritrovano nel rapporto The Production Gap pubblicato da vari istituti di ricerca, in collaborazione con il programma ambientale delle Nazioni Unite, Unep.
Dalle analisi emerge che i governi mondiali, nel complesso, hanno pianificato di produrre una quantità di risorse fossili tra carbone, gas e petrolio, totalmente incompatibile con i traguardi climatici indicati negli scenari dell’IPCC.
I paesi, infatti, da qui al 2030 andrebbero a produrre il 50% di fonti fossili in più rispetto al livello di produzione “accettabile”, quello cioè in linea con l’obiettivo di limitare a 2 gradi il surriscaldamento globale. E addirittura il 120% in più se si prende come riferimento l’obiettivo di limitare il global warming a +1,5 gradi.
In termini di emissioni, come mostra il grafico sotto tratto dal documento, nel 2030 carbone, gas e petrolio sarebbero responsabili di circa 39 miliardi di tonnellate/anno di CO2, il 53% in più in confronto a quello che sarebbe consentito dallo scenario dei 2 gradi.
Quindi ci sarebbero circa 13 miliardi di tonnellate di CO2 in eccesso, che salirebbero a 21 (+120%) facendo un paragone con il livello di produzione compatibile con un surriscaldamento di +1,5 gradi.
E non dimentichiamo che in Asia sarebbe pronta a esplodere una “bomba” di emissioni dovuta al crescente utilizzo di carburanti fossili nei prossimi anni, come ha appena rimarcato l’Agenzia internazionale dell’energia in uno studio collegato all’ultimo World Energy Outlook.
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