La finanza globale è troppo “bloccata” nelle fonti fossili. Come uscirne?
Ridurre gradualmente gli investimenti in combustibili fossili, puntando sulle energie rinnovabili e più in generale sui settori economici a basso impatto ambientale.
A questo scopo potrebbero essere utilizzate anche le obbligazioni verdi (green bond), il cui mercato annuale nei primi sei mesi del 2019 aveva già superato 100 miliardi di dollari nel mondo, un vero e proprio “botto” rispetto al 2017-2018.
Questa potrebbe essere la nuova strategia della Banca centrale europea, con a capo la francese Christine Lagarde, ex presidente del Fondo monetario internazionale.
Proprio in questi giorni Lagarde ha dichiarato (qui le affermazioni riportate dall’agenzia EurActiv) che occorre eliminare un po’ alla volta i “carbon asset” – gli investimenti nei settori più “sporchi”, come carbone, gas e oro nero – dal portafoglio della Banca centrale, in modo da allineare la finanza agli obiettivi di riduzione delle emissioni inquinanti e lotta ai cambiamenti climatici.
A riportare l’attenzione sulla necessità di trasformare i flussi finanziari globali c’è anche il nuovo rapporto di Carbon Tracker (scaricabile qui con registrazione gratuita), Breaking the Habit, che aggiorna il precedente studio uscito nel 2018 sul rischio di stranded asset per le grandi compagnie fossili.
Con stranded asset, ricordiamo, s’intendono quelle infrastrutture destinate letteralmente a “incagliarsi” in uno scenario di crescita economica che punta a contenere ben sotto 2 gradi centigradi l’aumento delle temperature medie terrestri entro fine secolo, come previsto dagli accordi di Parigi.
In altre parole: le aziende oil & gas di tutto il mondo potrebbero perdere svariati miliardi di dollari nei prossimi anni a causa di progetti non più remunerativi, resi inutili/obsoleti dall’espansione delle risorse rinnovabili (eolico, solare, trasporti elettrici e così via).
Perdite che secondo gli ultimi calcoli di Carbon Tracker sarebbero nell’ordine dei 2.200 miliardi di dollari al 2030, una cifra enorme, dovuta all’ostinazione con cui molti colossi petroliferi scommettono sull’estrazione di nuovi idrocarburi, compresi quelli cosiddetti “non convenzionali” perché si trovano negli scisti o nelle sabbie bituminose e richiedono tecniche molto invasive per essere portati alla luce (il fracking ad esempio, la “spaccatura” idraulica delle rocce).
La tabella seguente include alcuni esempi di quelli che Carbon Tracker considera investimenti incompatibili con l’obiettivo di abbattere le emissioni inquinanti.
E c’è anche un progetto di Eni: quasi un miliardo di dollari da investire in Messico per sfruttare altri giacimenti di oro nero.
Tra i nomi più ricorrenti vediamo poi Shell, ExxonMobil, PetroChina; e poi BP, Total, Equinor e altre multinazionali fossili, già finite sotto accusa per aver diffuso fake news sul clima e fatto pressioni lobbistiche sui governi allo scopo di bloccare l’adozione di norme ambientali più severe, anche se pubblicamente affermano di sostenere la transizione energetica verso le tecnologie pulite.
Così sono sempre di più gli investitori che abbandonano queste società: l’ultimo esempio è la decisione del fondo danese MP Pension di vendere tutte le sue partecipazioni nelle prime dieci compagnie petrolifere su scala mondiale.
Ricordiamo infine che un recente rapporto dell’organizzazione no-profit Global Witness ha segnalato che il settore oil & gas potrebbe investire fino a 5.000 miliardi di dollari nei prossimi decenni per dilatare la produzione di combustibili fossili, andando nella direzione totalmente contraria a quelle indicata dagli accordi internazionali sul clima.
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