L’eccessivo sfruttamento dei terreni che accelera il cambiamento climatico
Il suolo è una risorsa “critica” per il futuro del nostro Pianeta, perché il modo in cui sfruttiamo la superficie terrestre per soddisfare i nostri bisogni – produrre energia, coltivare, dissetarci e così via – ha un impatto crescente sui cambiamenti climatici.
Questo è il messaggio centrale che l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change, l’organismo delle Nazioni Unite che studia l’evoluzione del clima) ha voluto trasmettere con il suo rapporto speciale Climate Change and Land, presentato oggi, giovedì 8 agosto, a Ginevra.
Mentre il rapporto uscito lo scorso ottobre si era concentrato sulla necessità di ridurre velocemente le emissioni di anidride carbonica per limitare a +1,5-2 gradi l’aumento delle temperature medie entro fine secolo, rispetto all’età preindustriale, il nuovo studio approfondisce le relazioni tra l’uso dei terreni e il surriscaldamento globale.
Perché l’uso “sostenibile” dei terreni è di fondamentale importanza, avvertono gli scienziati dell’IPCC.
Le foreste, i boschi, le aree coperte in tutto o in parte di vegetazione (paludi e acquitrini, ad esempio), sono bacini naturali (cosiddetti carbon sink) capaci di trattenere la CO2, quindi le attività umane incontrollate, come l’agricoltura intensiva, gli allevamenti di bestiame su vasta scala, la deforestazione, finiscono per peggiorare il bilancio climatico complessivo.
Tanto che ogni anno arriva in anticipo il “giorno del sorpasso”, Overshoot Day (nel 2019 è stato il 29 luglio), il giorno in cui la Terra esaurisce tutte le risorse naturali a disposizione dell’uomo per dodici mesi.
In altre parole: la popolazione mondiale vive sopra le sue reali possibilità, perché chiede agli ecosistemi terrestri più energia, più cibo, più acqua, più materie prime, rispetto a quello che gli ecosistemi sono in grado di offrire alle persone conservando un equilibrio ecologico.
Così il rapporto speciale dell’IPCC si focalizza su temi come la biodiversità, l’alimentazione, le risorse idriche, il degradamento dei suoli (desertificazione, siccità), la distruzione degli ambienti naturali.
Il punto è che lo sfruttamento eccessivo della superficie terrestre contribuisce a velocizzare il cambiamento climatico, e il cambiamento climatico a sua volta contribuisce a deteriorare sempre di più gli ecosistemi, perché gli eventi “estremi” – ondate di calore, alluvioni, siccità – diventano più intensi e frequenti producendo conseguenze rovinose, come l’erosione dei suoli, le frane, la scomparsa del permafrost.
Gli incendi che stanno devastando la Siberia e lo scioglimento record dei ghiacci in Groenlandia sono esempi recentissimi di quanto il cambiamento climatico antropogenico (innescato dalle attività umane) stia facendo scomparire enormi fette del capitale naturale che la Terra ha messo a nostra disposizione.
Guerre, conflitti tribali, migrazioni, sono altre conseguenze, stavolta sul piano sociale e geopolitico, che si dovranno affrontare in relazione al cambiamento climatico, evidenziano gli esperti dell’IPCC, soprattutto nelle regioni più povere ed esposte al cosiddetto “climate risk” (vedi anche qui).
E poi c’è il seguente problema irrisolto: quasi tutti gli scenari che prevedono di contenere sotto 2 gradi il surriscaldamento terrestre, si legge nella sintesi dello studio speciale dell’IPCC, si affidano in varia misura alle soluzioni per rimuovere dall’atmosfera le emissioni di CO2.
Si parla ad esempio di tecnologie per “catturare” l’anidride carbonica degli impianti industriali (CCS: Carbon Capture and Storage) in particolar modo quelle applicate alle bioenergie; di massicci interventi di rimboschimento/riforestazione, di aumentare la tutela e la conservazione degli ambienti naturali.
Tutto dipenderà da quanto rapidamente l’uomo riuscirà a tagliare le emissioni inquinanti nei prossimi 10-20 anni nei vari settori: trasporti, produzione energetica, agricoltura, industrie, edifici.
Tenendo presente che per catturare ingenti quantità di CO2 con le bioenergie o le riforestazioni si rischierà di generare una crescente competizione tra i differenti utilizzi dei terreni: per le colture alimentari, per le piantagioni destinate a produrre energia o carburanti biologici, per rigenerare gli ecosistemi danneggiati…
Il punto è che “convertire” una certa area da un uso a un altro, ad esempio da foresta a terreno agricolo oppure viceversa, ha sempre un suo costo o un effetto secondario indesiderato, come la perdita di biodiversità e il minore assorbimento di CO2, nel primo caso, la minore sicurezza alimentare nel secondo.
In definitiva, ammonisce l’IPCC, l’uomo dovrà imparare – e dovrà farlo molto in fretta – a gestire in maniera molto più attenta responsabile le risorse naturali, a ridurre gli sprechi idrici e alimentari anche attraverso delle modifiche alla dieta (minore consumo di carne), a diffondere soluzioni di economia circolare per riutilizzare il più possibile le materie prime.
Documento allegato (pdf in inglese):
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