Miglioriamo subito il Piano Energia e Clima
Mentre è in fase di elaborazione la versione finale del Pniec, vale la pena fare alcune osservazioni, anche alla luce di molte recenti novità.
Negli ultimi mesi milioni di giovani hanno infatti manifestato per il clima in tutto il mondo, con una presenza molto forte in Italia. Inoltre la nuova presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha proposto di portare la riduzione delle emissioni di gas serra dal 40 al 50% entro il 2030.
Ma veniamo a noi, partendo dalla limitata ambizione degli obbiettivi del Pniec al 2030, ad iniziare dal non adeguato taglio del 37% delle emissioni di CO2.
Se inquadriamo questo impegno nello scenario di un’Europa carbon neutral al 2050, l’Italia nel periodo 2030-50 dovrebbe ridurre le emissioni ad una velocità quadrupla rispetto al periodo 1990-2030, un’accelerazione francamente improbabile.
È chiaro dunque che, per essere seri sulla traiettoria complessiva di decarbonizzazione, il target 2030 dovrebbe essere decisamente alzato, cosa che non sembrerebbe probabile dalle prime dichiarazioni del nuovo Governo giallorosso.
Altri paesi però intendono farlo. Ad esempio, la Francia e la Bulgaria vogliono superare il target UE del 32% da rinnovabili, e anche la Grecia ha deciso di alzare i suoi obbiettivi.
E la decarbonizzazione a metà secolo fa poi anche riflettere criticamente sul ruolo importante assegnato nel Piano al metano e alle reti.
Anche l’Italia dovrebbe rivedere gli impegni 2030
Si sostiene che il Piano italiano sia uno dei migliori presentati. In realtà, il giudizio complessivo della Commissione sottolinea la mancanza di ambizione dei Piani presentati e l’assenza di strumenti adeguati per raggiungere gli obbiettivi.
Siamo andati a vedere le analisi sui singoli Piani presentati.
La qualificata European Climate Foundation nello studio “Planning for net zero: assessing the draft national energy and climate plans” dello scorso maggio, ha classificato il Piano dell’Italia solo al ventiduesimo posto (nel grafico la classificazione dei Piani presentati in Europa dai vari paesi (ECF, 2019).
Una delle obiezioni del Governo all’ipotesi di alzare gli obbiettivi è che in questo modo consentiremmo ai paesi europei ritardatari di emettere di più.
Una scusa senza basi. Il Regolamento europeo sui Piani per gli Stati Membri dice infatti che: “Indipendentemente dal suo contributo all’obiettivo dell’Unione, uno Stato membro è libero di stabilire obiettivi più ambiziosi per finalità di politica nazionale”.
Quindi, se proprio il Governo non vuole toccare gli obbiettivi inviati in Europa, allora aumenti la quota nazionale per fare gli interessi del paese!
Lanceremmo un segnale forte, senza essere vincolati ai nuovi target.
Ma qui tocchiamo la vera ragione della timidezza politica. Il timore cioè che ad alzare troppo il tiro si penalizzerebbe l’economia italiana. Noi pensiamo che questa preoccupazione sia infondata, e che sia semmai vero il contrario.
Molti governi considerano l’adozione di target sfidanti un segnale importante per le proprie imprese e per le loro economie. Così, ad esempio, Francia, Regno Unito, Olanda, Norvegia, Danimarca, Irlanda, Svezia. hanno proposto una data oltre la quale non si potranno più vendere auto a benzina o diesel.
E focalizzando l’attenzione sull’elettricità verde, troviamo diversi paesi con impegni seri al 2030: il 65% in Germania, il 75% in Spagna, l’85% in Portogallo, il 100% in Danimarca, mentre il Regno Unito vorrebbe arrivare al 50% già nel 2025.
Obbiettivi chiari, ambiziosi, di lungo periodo lancerebbero un chiaro messaggio alla nostra industria che si attrezzerebbe per diventare più competitiva nello scenario internazionale di decarbonizzazione.
Si accelererebbe la riqualificazione energetica “spinta” degli edifici, si stimolerebbe la crescita del comparto di auto elettriche, si rafforzerebbe la transizione verso le rinnovabili.
Accenniamo dunque ad alcune dinamiche che potrebbero innescarsi.
Settore civile più efficiente
È chiaro che per ottenere risultati incisivi si dovrà spingere sempre di più sulla “deep renovation” che consente risparmi del 60-80% e si dovranno introdurre obiettivi intermedi e a lungo termine di risparmio energetico.
Questa chiarezza sugli scenari motiverebbe il settore ad investire, tra l’altro, nell’industrializzazione e nella digitalizzazione per ridurre costi e tempi. In Europa il passaggio alla riqualificazione spinta degli edifici consentirebbe, secondo uno studio del Buildings Performance Institute Europe, di ridurre del 36% i consumi al 2030, migliorando il comfort termico degli ambienti, facendo ripartire l’occupazione, riducendo le importazioni di gas. E, ovviamente tagliando le emissioni di CO2.
Naturalmente questo è possibile solo con un deciso cambio di marcia, con una forte spinta alla ricerca e l’adozione di nuovi modelli di intervento.
In effetti, Il settore delle costruzioni è caratterizzato da una scarsa propensione all’innovazione e da bassa produttività. Un grande piano di riqualificazione e di rigenerazione dei quartieri favorirebbe la modernizzazione dell’intero settore. La digitalizzazione e l’industrializzazione dei processi su larga scala consentirebbe di ridurre del 30-40% i tempi e del 10-20% i costi, consentendo così di passare dall’1% di superficie riqualificata annualmente al 2%, con interessanti ricadute occupazionali.
Sono stati lanciati diversi progetti di ricerca europei per facilitare questa trasformazione del settore edile. E l’esperienza di Energiestrom con 4.000 interventi “net zero energy” dimostra la fattibilità di percorsi nuovi.
Occorre dunque un salto di qualità rispetto alla miriade di interventi di efficientamento separati (infissi, caldaie, ecc.) che hanno caratterizzato in passato le politiche di sostegno, passando progressivamente alla riqualificazione spinta di interi edifici, rigenerando pezzi di quartieri.
La mobilità
Sulla mobilità elettrica siamo in estremo ritardo a causa sia della miopia di Fiat/Fca che dei Governi degli ultimi dieci anni. Eppure, le opportunità che si aprono sono estremamente interessanti, come dimostrano i 300 miliardi $ che verranno investiti nel mondo su questo fronte.
Quali prospettive per l’Italia? Secondo uno studio di Motus-e il fatturato della filiera della mobilità elettrica “made in Italy” con gli obbiettivi indicati nel Pniec potrebbe raggiungere i 98 miliardi € al 2030. Sono stati elaborati anche altri due scenari, uno più cauto che utilizza le previsioni dell’industria dell’auto, Anfia, e uno “spinto”. La differenza tra questi due scenari, cioè tra un impegno più o meno deciso da parte di governo e imprese, è di oltre 100 miliardi € cumulativi. Una cifra indicativa dell’impatto del livello di ambizione nella mobilità elettrica.
Un segnale può venire dalla definizione di una data oltre la quale si potranno vendere solo auto elettriche. Il ministro dell’ambiente danese all’inizio di ottobre ha proposto di vietare la vendita dei auto a combustione interna in tutta Europa dal 2040, ottenendo il consenso di altri nove paesi, fra cui il nostro (bravo Costa, il Governo deve fare suo questo obbiettivo).
Naturalmente è molto importante sollecitare un impegno industriale oltre che sul fronte delle batterie anche su quello dei veicoli. In Europa stanno moltiplicandosi le iniziative per costruire fabbriche di sistemi di accumulo a ioni di litio, mentre il nostro paese è in forte ritardo, come indicato nella figura sui progetti e prime realizzazioni di fabbriche di batterie al litio in Europa (Transport&Environment 2019), che però non riporta la piccola realtà Seri/Faam che decollerà a fine anno in Campania.
Anche sul versante dei veicoli, dove finalmente qualcosa si muove in Fca, occorrerebbe una decisa azione governativa di stimolo.
Per esempio, si sa che Tesla sta decidendo dove localizzare una sua fabbrica di auto in Europa, un investimento da 4,5 miliardi €. Il governo ha fatto delle proposte per attrare questo investimento nel nostro paese?
Due notazioni infine sull’obbiettivo indicato nel Pniec, 6 milioni di veicoli elettrici al 2030, con 1,6 milioni elettriche pure e 4,4 milioni plug-in.
Innanzitutto, considerando le evoluzioni previste in vari scenari internazionali, il rapporto andrebbe ribaltato a favore delle elettriche pure (nel grafico la diffusione dei veicoli elettrici nel mondo al 2030 in due scenari, IEA, 2019).
Inoltre, il valore assoluto da raggiungere alla fine del prossimo decennio potrebbe essere più elevato. Per esempio la stima alta dell’Energy&Strategy Group del Politecnico di Milano parla di 7 milioni di auto elettriche, per l’80% elettriche pure.
Le rinnovabili
Anche sul contributo delle energie verdi si potrebbe definire una strategia più aggressiva.
La riduzione dei costi del fotovoltaico, dell’eolico e dei sistemi di accumulo faciliterà la corsa del prossimo decennio.
Senza andare alle previsioni sovrastimate di Bloomberg con un 90% della domanda elettrica potenzialmente soddisfatta dalle rinnovabili al 2030, altre valutazioni indicano un contributo più sostenuto dell’energia verde. Nelle analisi di Free, ad esempio, si valuta possibile una decina di TWh in più dal solare.
Il Governo dovrà accelerare sulle Comunità energetiche, che libereranno un grande potenziale inespresso. Si dovrà realizzare un reale Patto con le Regioni su vari fronti, ad iniziare dagli iter autorizzativi.
L’agro-fotovoltaico potrà consentire di generare energia e contemporaneamente di coltivare campi abbandonati. E si dovranno cambiare le regole del mercato elettrico in presenza degli elevati contributi previsti dalle rinnovabili.
Ma numeri più ambiziosi si possono ottenere anche fuori dal comparto elettrico. Sul fronte del biometano, ad esempio, gli obbiettivi vanno decisamente alzati. Secondo il CIB nel 2030 si potrebbero generare 8 miliardi di metri cubi, ben al di sopra del target di 1,1 miliardi indicato nel Pniec.
Carbon tax
Un solo accenno agli strumenti. Se cercate la parola “carbon tax” nel Pniec, non trovate una sola citazione. Eppure essa viene considerata lo strumento più efficace per ridurre le emissioni. Ne è convinto perfino il Fondo Monetario Internazionale che propone di arrivare progressivamente a un valore di 75 $ a tonnellata di CO2 nel 2030.
Sono diversi i paesi europei che hanno già adottato questa misura per il settore civile e dei trasporti, in modo complementare al sistema ETS. In Germania essa è stata appena approvata con un valore che partirà dai 10 €/t nel 2021 per arrivare ai 35 €/t nel 2025.
Sarebbe opportuna una riflessione anche in Italia su questo strumento e la sollecitazione di una sua adozione a livello europeo.
Gli Enti Locali
Per finire, una riflessione sugli attori del cambiamento, ad iniziare dalle città.
Le istituzioni locali hanno un ruolo centrale nelle strategie climatiche, considerando che i centri urbani sono responsabili di oltre due terzi delle emissioni di CO2.
Negli ultimi vent’anni c’è stato uno stimolo da parte della Ue verso la definizione di Piani d’azione per l’energia sostenibile, che hanno visto il coinvolgimento centinaia di realtà italiane. Ci sono poi reti internazionali, come l’Alleanza per il Clima, Iclei, C40, la Global Covenant for Mayors for Climate and Energy, che puntano a rendere più incisivo il ruolo delle città.
Dalle scelte locali su mobilità, edilizia, spazi verdi, rifiuti, dipende infatti fortemente il successo delle politiche climatiche.
Per questo sarebbe utile un ruolo di supporto e di coordinamento a livello centrale da parte della Presidenza del Consiglio o del Ministero dell’Ambiente, in modo da sollecitare percorsi virtuosi e monitorare i risultati ottenuti.
Versione finale più coraggiosa?
Come abbiamo visto i segnali di una rivisitazione significativa del Pniec sono piuttosto flebili. Prevale forse l’idea che comunque nei prossimi anni questo documento verrà rivisto.
Ma non facciamo cadere la speranza che, già da ora, il nuovo Governo lanci un segnale di discontinuità.
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