Mobilitarsi per il clima è anche rivedere il nostro modello economico
Cosa succederà dopo la straordinaria mobilitazione mondiale sul clima, per molti versi inaspettata nella sua ampiezza?
Innanzitutto una presa di coscienza. Ci saranno ragazzini che a scuola chiederanno di approfondire questi temi e che criticheranno i loro genitori per gli acquisti inutili, per le scelte alimentari e quelle di trasporto.
Ma altrettanto, se non più importante, sarà la pressione sulle istituzioni affinché mettano a punto politiche climatiche più coraggiose.
L’enorme fiumana che si è riversata nelle strade di centinaia di città ha infatti già accentuato l’attenzione sul rischio del riscaldamento globale. Fra poco più di due mesi si svolgeranno le elezioni europee e le strategie climatiche saranno al centro dei programmi di molte forze politiche. Non sarebbe stato così, almeno in Italia.
L’ondata di protesta ha caratteristiche nuove e originali ed è destinata ad estendersi. Nel secolo scorso le mobilitazioni erano prevalentemente mirate a migliorare le condizioni di vita e di lavoro, in vista di un percorso di crescita del benessere individuale e sociale (un discorso a parte andrebbe fatto, e andrà fatto, sulle differenze e analogie col movimento del ’68).
Oggi i giovani sono certo preoccupati dalla insicurezza occupazionale, ma nasce in loro anche la consapevolezza che il futuro del clima è già compromesso e la qualità della loro stessa vita è a rischio.
Come ricorda un messaggio di supporto alle manifestazioni pubblicato sul Scientific American da parte di 240 climatologi, gli anni in cui hanno vissuto questi ragazzi sono stati i più caldi da quando si misurano le temperature. E i fenomeni estremi sempre più frequenti e minacciosi.
Non a caso la credibilità e la forza del movimento deriva dal fare esplicitamente riferimento alle indicazioni della comunità scientifica e dalla constatazione dell’assoluta insufficienza della risposta politica.
Inoltre comincia a rafforzarsi in questi giovani la coscienza che la mobilità sociale è bloccata e che la ricchezza si sta accumulando in maniera indecorosa in poche mani.
Quindi alla consapevolezza dei rischi climatici si aggiunge quella di diseguaglianze sociali sempre più inaccettabili.
Ed è significativo lo spartiacque che si è creato tra chi si ribella e vuole incidere e chi resiste al cambiamento attraverso il paternalismo, la derisione, l’aggressività.
Perché è chiaro che viene messa in discussione l’incapacità di affrontare con la dovuta decisione la crisi climatica: le emissioni globali di CO2 sono aumentate sia nel 2017 che nel 2018, mentre dovremmo decarbonizzare il pianeta nel giro di 30-40 anni.
Sembrerebbe un’impresa impossibile.
In realtà, malgrado il fallimento delle politiche sul clima, ci sono segnali positivi a livello di singole città, di alcuni Stati, di diverse imprese, di “disruptive technologies”.
E proprio la ricerca di soluzioni innovative offre la possibilità di interessanti opportunità lavorative. Ma manca la consapevolezza dell’urgenza dell’azione e la conoscenza delle misure necessarie per dispiegare tutto il potenziale.
Occorre infatti credere e sostenere i percorsi che stanno emergendo in tutti i settori, dall’energia ai trasporti, dall’edilizia all’industria, senza dimenticare l’agricoltura e le foreste… e contemporaneamente penalizzare l’uso dei combustibili fossili togliendo i sussidi e adottando una carbon tax europea, soluzione tabù da avviare con intelligenza (come ha fatto il Canada). Senza dimenticare l’adozione di strumenti fiscali su scala nazionale e sovranazionale per ridurre le diseguaglianze.
Si tratta, in sostanza, di rileggere tutte le scelte economiche alla luce del loro impatto climatico rivedendo dunque l’attuale modello di sviluppo.
È questo timore, in fondo, ad alimentare l’ostilità contro un movimento che, nella sua innocenza e radicalità, rischia di mettere in discussione scelte strategiche e modelli di vita.
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