Quanto è davvero sostenibile l’agricoltura verticale?
L’agricoltura è responsabile per il 14% delle emissioni mondiali di gas serra, a cui va però aggiunto un ulteriore 18% legato alla deforestazione, che quasi sempre avviene per avere nuovi territori in cui produrre cibo.
Contemporaneamente oltre la metà della popolazione mondiale vive ormai in città, e quindi non si produce più da sola il cibo, contando per sfamarsi sui territori intorno, se non di tutto il mondo, nel caso dei paesi, come l’Italia, che dipendono dall’import di cibo per sopravvivere.
Se questa è la situazione, una idea che può venire in mente è quella di dotare le città di mezzi per produrre da sole, almeno in parte, il cibo che consumano.
Così si limiterà il consumo di suolo fuori da esse, e i trasporti per far arrivare il cibo ai cittadini, che sono fonte di emissioni di CO2.
Una soluzione che noi in Italia, e ormai in sempre più paesi del mondo, conosciamo bene: le nostre città sono costellate di orti urbani, realizzati ovunque ci siano terreni abbandonati, che volenterosi cittadini decidono di mettere a frutto, producendo cibo di qualità a chilometri zero, assorbendo emissioni e inquinanti e anche facendo fare attività fisica alle persone.
Ma pare che questa semplice soluzione “low tech” non sia sufficiente, per cui da alcuni anni se ne propone un’altra, quella della “agricoltura verticale”, cioè di orti realizzati all’interno di edifici, in cui le piante crescono con sola luce artificiale, in un ambiente sigillato e climatizzato.
«I vantaggi sono notevoli», spiega a QualEnergia.it l’architetto Gabriella Funaro dell’Enea, che ha realizzato per Expo 2015 Vertical Farm, il primo orto verticale Made in Italy.
«Si producono ortaggi al chiuso, con un clima mantenuto alle condizioni ideali tutto l’anno, e senza temere insetti, batteri o altri parassiti, quindi senza uso di pesticidi. Il supporto delle piante non è terra, ma torba, argilla espansa o lana di roccia, in cui circola la quantità ideale di acqua con disciolte soluzioni nutritive. Un sistema digitale controlla quali sostanze le piante abbiano consumato, e le ripristina nella esatta quantità, senza sprechi o inquinamenti. Infine la crescita delle piante è assicurata dall’illuminazione a LED nelle lunghezze d’onda più utili ai vegetali, che replica le condizioni naturali ideali per l’intera giornata, accelerando la fotosintesi clorofilliana».
Tutta questa ottimizzazione nelle esigenze delle piante, e la produzione continua tutto l’anno, fa sì che a parità di superficie, una Vertical Farm sforni 4-5 volte più cibo di un orto tradizionale, usando, nel caso delle insalate, un 45esimo dell’acqua.
E si può fare molto di più: in Giappone, la serra urbane verticale più grande del mondo, quella a 16 piani di Miyagi, produce 100 volte più insalate, 10mila al giorno, che in pari superficie di campo.
L’uso massivo di fattorie verticali sembra quindi poter contribuire a sfamare le città, e anche recuperare anche molta architettura abbandonata.
«A Shangai, per esempio, un intero quartiere di un nuovo sobborgo, sarà dedicato alla produzione urbana di cibo, ma nelle nostre città per lo stesso scopo si potrebbero recuperare tantissimi edifici industriali abbandonati, per riadattarli all’uso della produzione agricola verticale», dice Funaro.
In teoria l’uovo di Colombo: non solo si producono ortaggi di alta qualità, addirittura migliori come assenza di contaminati di quelli bio, si riducono gli sprechi, perché le verdure sono “perfette”, non essendo danneggiate da insetti o eventi meteo, il tutto a pochi metri dai consumatori, azzerando le emissioni e l’inquinamento connessi ai trasporti del cibo.
Però, ci sono anche molte limitazioni e dubbi sulla sostenibilità di questo tipo di agricoltura.
Il primo è che la gamma di vegetali coltivabili è, per ora, molto limitata: ravanelli, insalate, erbe aromatiche, piccoli frutti. Non esattamente il cuore della dieta delle persone.
«Gli spazi fra gli scaffali sono limitati, non possiamo coltivare piante troppo ingombranti. E non possiamo certo coltivare quelle da colture estensive, come i cereali, il cui prezzo è troppo basso per giustificare la coltivazione con questa tecnologia. Forse in futuro, la produzione di varietà di ortaggi pensati apposta per le Vertical Farm, amplierà l’offerta», conferma Funaro.
Fino a quel momento, quindi, sembra che questo tipo di agricoltura urbana, più che “sfamare le città”, serva a soddisfare i desideri di una piccola frazione di consumatori affluenti e ricercati, disposti a spendere un bel po’ di più, pur di avere lattughe, fragoline ed erbette ultrasane, coltivate veramente a km zero dalle loro cucine.
Del resto, se ci si pensa, per ora l’unica applicazione di massa di agricoltura a luce artificiale, è quella della canapa indiana, legale o illegale che sia: in quel caso il valore della merce giustifica la costosa tecnologia usata e le pesanti bollette dell’elettricità connesse.
E questo ci porta al vero punto dolente di questa tecnologia: il consumo energetico, enorme, perché le serre urbane per funzionare hanno bisogno di produrre ciò che il sole ci dà gratis, la luce.
«Purtroppo far entrare la luce solare in queste serre, complica molto il loro funzionamento, perché la luce solare porta con sé calore, che poi va contrastato, magari aprendo le finestre, e rischiando di far entrare parassiti nella serra. La luce poi varia con le ore e le stagioni, rendendo più difficile assicurare sempre la quantità giusta in qualità e quantità alle piante», spiega l’architetto Enea.
Questo però obbliga a sostituire con tanta elettricità ciò che la natura ci regalerebbe: la Vertical Farm Enea, pur essendo un prototipo di 3x3x4 metri, contenente 600 piante alla volta, richiede 20 kW di elettricità, di cui circa la metà se ne va in alimentazione per i led, e il resto per pompe dell’acqua e climatizzazione.
L’ingegnere Louis Albright, della Cornell University, ha provato a calcolare nel 2015 costi ed emissioni legate a questa agricoltura indoor, nello stato di New York: è risultato che se si dovesse coltivare il grano per produrre pane con questo metodo, ogni pagnotta conterrebbe 20 euro circa di elettricità, mentre ogni cespo di lattuga che uscisse in inverno da una fattoria verticale, sarebbe responsabile di 8 kg di CO2 emessa, contro i 2 kg se fosse coltivato in una normale serra riscaldata, e gli 0,7 kg, se provenisse dalla California, con un viaggio di 5000 km.
«Certo, usare l’elettricità da fonti fossili non è il massimo per questo tipo di applicazione», ammette Funaro. «Però le cose cambiano se per l’elettricità di rete si impiegano in buona parte fonti rinnovabili. A quel punto il minore uso di suolo, l’assenza di emissioni connesse a pesticidi, il quasi annullamento di quelle per i fertilizzanti e il “chilometro zero”, rendono il bilancio delle emissioni vantaggioso per le serre verticali urbane».
Se questo avvenga, ovviamente, dipende molto dalle condizioni locali: quantità di insolazione e temperature naturali, contenuto in CO2 dell’elettricità usata, distanza fra città e produzione convenzionale di cibo e così via.
In generale, però, la possibilità di alimentare queste fattorie verticali solo con energia rinnovabile, sembra piuttosto remota.
Consideriamo quella fotovoltaica, la più promettente in Italia e gran parte del mondo. In pratica si tratta di convertire la luce del sole in elettricità, e poi riconvertire l’elettricità in luce, una partita di giro che porta a un risultato paradossale: l’agronomo Bruce Bugbee, della Utah State University, ha calcolato che per l’elettricità necessaria a un ettaro di serre verticali, servirebbero 13 ettari di terreno coperti da pannelli solari. Non esattamente un gran guadagno, in termini di consumo di suolo.
«E’ dura sostituire la gratuita luce solare e produrre cibo economico», dice Bugbee. «Ma, peggio ancora, è ambientalmente controproducente: se vogliamo limitare il cambiamento climatico, dovremmo usare ogni possibile fonte di energia rinnovabile per sostituire quelle fossili. Non usarle per sostituire una fonte, la luce del Sole, che è già rinnovabile».
Speriamo quindi che queste nuove tecnologie agricole, che sembra siano destinate a diffondersi molto rapidamente, migliorino di molto la loro efficienza e si trovi il modo di alimentarle in modo sostenibile. Se invece finiranno per essere solo una nuova moda consumistico-salutista, mandata avanti con elettricità ad alto contenuto di fossili, contribuiranno solo a peggiorare ulteriormente la nostra già precaria situazione climatica. E tutto per qualche mirtillo o ravanello.
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