Rinnovabili in Italia nel 2018: la sfida della ripartenza
Non c’è più tempo da perdere. Si potrebbe sintetizzare così la “questione rinnovabili” in Italia nel 2018. Infatti, come già avevamo segnalato nel rapporto Green Italy 2017, dopo anni (quelli dal 2007 al 2013) in cui l’Italia aveva finalmente raggiunto (e superato persino, in alcuni casi) i Paesi più avanzati, negli ultimi anni – a causa di scelte politiche discutibili e poco lungimiranti – ci siamo fermati.
Ma adesso dobbiamo riprendere a correre: ce lo chiedono gli stessi impegni che abbiamo sottoscritto a livello internazionale nella lotta ai cambiamenti climatici e la scommessa di rilanciare un nuovo sviluppo economico scommettendo su quei settori più densi di futuro come appunto le rinnovabili.
A luglio di quest’anno l’Europa ha aggiornato i suoi target al 2030 proprio con questi due obiettivi. Attrezzarsi per rispettare gli Accordi di Parigi: siamo purtroppo ben lontani dal rispettare l’impegno di non far crescere la temperatura globale del Pianeta oltre 1,5 gradi; e nel 2017 le emissioni globali di gas di serra sono addirittura tornate a crescere. E promuovere gli investimenti nella green economy nel settore energetico.
All’Italia è stato assegnato il target del 32% di energia da rinnovabili sui consumi totali entro il 2030. Questo significa innanzitutto che nei prossimi anni dovremo marciare molto più speditamente:
– nell’efficienza energetica, mettendo da parte timidezze che fino adesso hanno penalizzato questo settore assai promettente anche dal punto di vista industriale, rendendo permanenti le detrazioni fiscali in edilizia residenziale e i superammortamenti in quella industriale;
– in una mobilità nuova, che privilegi altri modi di spostarsi rispetto all’auto privata (mezzi pubblici, bicicletta, sharing), promuova l’elettrificazione nei trasporti, e dia adeguato spazio ai biocombustibili avanzati, a partire dal biometano, soprattutto nel trasporto pesante.
In ogni caso però l’obiettivo del 32% sui consumi totali significa che nel settore elettrico – anche considerando un significativo e auspicato miglioramento nell’efficienza – si dovrà arrivare al 2030 con una produzione di circa 200 TWh da fonti rinnovabili.
Considerando che siamo a poco più di 100 TWh, dobbiamo raddoppiare la produzione da rinnovabili in 12 anni. Un obiettivo molto sfidante ma raggiungibile. A patto che si tolgano gli ostacoli allo sviluppo di eolico (di piccola, e di grande taglia, on shore e off shore) del fotovoltaico (soprattutto promuovendo autoconsumo e micro grids), del geotermico (soprattutto quello di piccole dimensioni e quello a ciclo chiuso); che sull’idroelettrico si esca da battaglia ideologica e si verifichi caso per caso eventuale impatto dell’impianto mini-idro sul deflusso del corso d’acqua; che si scommetta su quelle tecnologie innovative che hanno ancora bisogno di incentivi, come ad esempio il solare termodinamico, che sarebbero assai promettenti dal punto di vista industriale se solo si potesse realizzare qualche impianto.
E soprattutto, a patto che si sviluppino, come indicato anche dalle nuove direttive europee, le comunità energetiche eliminando i divieti esistenti per i sistemi di distribuzione chiusi (SDC) e per la vendita di energia peer to peer.
Il recente decreto sugli incentivi alle rinnovabili manca l’obiettivo. L’auspicio e l’impegno di tutte le forze economiche, associative e ambientaliste adesso deve concentrarsi sul Piano Clima ed Energia che il Governo italiano deve presentare in Europa all’inizio del 2019, per far sì che da lì si possano cambiare le politiche che consentano questo “balzo in avanti” tanto necessario per l’ambiente quanto per l’economia.
Insomma, l’obiettivo deve essere quello di riprendere un cammino che si era interrotto sul più bello. A giugno del 2016 (grafico sotto) la quota di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili per la prima volta aveva superato quella proveniente da fonti fossili; su base annua, il contributo delle rinnovabili sull’elettricità consumata si è stabilizzato intorno al 35%, dopo aver raggiunto il record mondiale – tra i paesi industrializzati – del contributo del solare fotovoltaico al mix elettrico: l’8%.
Numeri importanti in un settore che peraltro si era dimostrato l’unico anticiclico, proprio negli anni della crisi economica globale peggiore, arrivando a impiegare oltre 100mila lavoratori in Italia e creando sviluppo e ricchezza.
Uno sviluppo che, è bene ricordarlo, contrariamente alla vulgata per cui se ne sarebbero avvantaggiati solo produttori stranieri (e segnatamente i cinesi e i loro pannelli), ha costruito know-how ed economia reale: in un impianto fotovoltaico il cuore tecnologico non è il pannello ma l’inverter e quelli in giro per il mondo sono molto spesso italiani (ad esempio Power One e Santerno).
Ma poi ci siamo fermati: si pensi che il 90% dell’intera capacità fotovoltaica installata in Italia è stata realizzata fino al 2013. Ed è invece proprio questo know how che non andrebbe ulteriormente disperso (molte aziende in questi ultimi anni sono andate all’estero per continuare a lavorare) e dovrebbe essere la base da cui ripartire per il rilancio dei prossimi anni.
Invece purtroppo gli ostacoli continuano ad essere gli stessi: tempi infiniti per ottenere le autorizzazioni e ostacoli all’autoproduzione innanzitutto. Ma anche incapacità politica a livello locale di spiegare ai cittadini che un impianto a biometano o uno geotermico a ciclo chiuso non sono “bombe ecologiche”, tutt’altro.
E, anzi, la sfida di un sistema energetico low carbon e che tenda a 100% rinnovabili (come d’altronde sempre più spesso si inizia a programmare per il 2050 in molti Paesi) ci deve rendere consapevoli che essendo, per loro natura, gli impianti da rinnovabili più piccoli di quelli fossili, ce ne saranno molti di più e molto diffusi. E che quindi l’accettazione del territorio di questi impianti sarà sempre più importante. Anche da questo punto di vista potrà aiutare molto la promozione delle comunità energetiche, in cui diventerebbe evidente – anche per il territorio e le popolazioni locali – il vantaggio di ospitare un impianto da fonti rinnovabili.
La rivoluzione energetica è in atto. Se rimaniamo fermi perderemo grandi occasioni e lasceremo che i protagonisti siano altri (e probabilmente in questo caso verranno dall’Oriente visto l’attivismo cinese di questi ultimi anni). Se invece sapremmo sfruttare i nostri talenti potremmo fare di questa rivoluzione una chance di sviluppo straordinario.
Tre esempi bastino per tutti:
- Il più grande operatore elettrico italiano, Enel, è diventata tra le multinazionali dell’energia forse il più vocato alle rinnovabili.
- Sugli accumuli – la tecnologia sempre più necessaria con l’incremento del contributo delle rinnovabili non programmabili – il Made in Italy sta dando prova di grandi capacità (ELVI, FIAMM, Gruppo Loccioni).
- Gli agricoltori italiano sono i protagonisti di buone pratiche che consentiranno, se adeguatamente promosse, non solo contribuire all’aumento delle rinnovabili (si calcola in 8 miliardi di metri cubi il potenziale di biometano italiano) ma di far sì che l’agricoltura da contributore (non irrilevante) alle emissioni di gas di serra possa contribuire all’assorbimento di carbonio invece.
Tecnologie e pratiche già a disposizione. Si può fare. Basta volerlo.
L’articolo di Francesco Ferrante, riprodotto qui con il consenso dell’autore, è un estratto dal nuovo rapporto GreenItaly 2018 (pdf), il nono rapporto di Fondazione Symbola e Unioncamere, promosso in collaborazione con il Conai e Novamont, con il patrocinio del Ministero dell’ambiente che misura e pesa la forza della green economy nazionale (oltre 200 best practice raccontate, grazie anche alla collaborazione di circa trenta esperti).
Qui il comunicato di presentazione del documento.
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