Shale gas, tra i principali responsabili dell’aumento delle emissioni dell’ultima decade
Dovrebbe ormai essere ampiamente superato il dibattito sul fatto che il gas metano sia una fonte utile alla transizione energetica verso le rinnovabili. I motivi sono molti, sia dal punto di vista “chimico” che economico-strategico.
Da un punto di vista prettamente climatico, tenuto conto di tutto il ciclo produttivo, il metano è veramente di aiuto nel sostituire petrolio e carbone e portarci verso l’era del “rinnovabili al 100%”?
Come sappiamo il metano è un gas serra molto più potente della CO2 specialmente su tempi brevi: oltre 80 volte nei primi 20 anni dalla sua dispersione in atmosfera (inoltre va detto che le cosiddette “perdite” di gas nel ciclo produttivo sono sistematiche) .
Un’analisi di Claudio Della Volpe di ASPO Italia, Associazione per lo Studio del Picco del Petrolio (“Il metano rema contro“) valuta uno studio di Robert Howarth dell’Università di Cornell (Usa) che ha rivisto il peso delle principali cause nel recente aumento delle emissioni di metano (lo studio e la sintesi allegati in basso).
Ebbene, secondo questo studio i principali responsabili non sarebbero le sorgenti biogeniche, come si credeva fino a poco tempo fa (zone umide, animali, discariche), ma i combustibili fossili.
Tra questi, lo shale gas ha un impatto elevatissimo. Quello che proviene dall’estrazione nel Nord America negli ultimi 10 anni con la tecnologia del fracking (gas e petrolio da scisto) sarebbe responsabile di oltre metà dell’incremento dell’aumento delle emissioni mondiali da fonti fossili e approssimativamente di un terzo dell’aumento di tutte le emissioni da ogni fonte sempre nella passata decade. E nonostante sia ancora marginale a livello di produzione.
Il fracking, ricordiamo, è una tecnica di sfruttamento di giacimenti non tradizionali di gas e petrolio, tipicamente sviluppati negli Stati Uniti, che richiedono la rottura delle rocce per l’estrazione del combustibile.
Lo studio parte dal fatto che, dopo una relativa pausa nel periodo 2000-2007, si è riscontrato un forte aumento della concentrazione di metano in atmosfera (grafico del NOAA sul trend storico delle medie mensili delle concentrazioni globali di metano in atmosfera).
Claudio Della Volpe spiega che nel recente studio di Howart si vanno a ribaltare le conclusioni di alcuni anni fa, grazie all’utilizzo di un modello più preciso, che tiene conto anche della firma isotopica del metano estratto mediante fratturazione idraulica delle rocce.
Così si riesce a ricostruire il responsabile nascosto dell’aumento delle emissioni di metano dopo la pausa del 2000-2007: è proprio il fracking utilizzato per estrarre il gas e il petrolio da scisto.
Il suo sviluppo, proprio dopo il 2005, e la firma isotopica con basso contenuto di carbonio 13 spiegano il calo che è avvenuto della concentrazione in atmosfera di carbonio isotopo 13.
Howarth conclude che “le maggiori emissioni di metano da combustibili fossili probabilmente superano quelle provenienti da fonti biogeniche nell’ultimo decennio (dal 2007). L’aumento delle emissioni di gas di scisto (forse in combinazione con quelle di olio di scisto) costituisce per oltre la metà dell’aumento totale delle emissioni di combustibili fossili. Quindi la commercializzazione di gas di scisto e petrolio nel ventunesimo secolo ha aumentato notevolmente le emissioni globali di metano”.
Insomma, come conclude anche Della Volpe, “sulla base dei calcoli di Howarth si può concludere che l’uso del metano non solo non rappresenta quello che alcuni (compresa l’ENI e parecchi “ambientalisti”) ritengono, ossia un ponte verso le vere rinnovabili; al contrario l’uso del metano è un rischio ormai chiaro di peggiorare le cose e deve essere evitato con tutte le forze; ovviamente a partire dalla costruzione di inutili infrastrutture relative sia alla sua estrazione che al suo trasporto (come è il caso della TAP).”
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