Solare termodinamico, analisi di un tracollo tutto italiano
La filiera industriale italiana del solare termodinamico “è morta” e senza prospettive all’orizzonte nel nostro paese, perché l’atteso decreto Fer 2 assai difficilmente potrà ribaltare la situazione.
Gianluigi Angelantoni, presidente di Anest (l’Associazione nazionale energia termodinamica, che ha appena deliberato il suo scioglimento) e presidente di Archimede Solar Energy, ha tracciato un quadro molto chiaro sul presente e sul futuro di questa fonte energetica rinnovabile.
Di solare termodinamico CSP (Concentrating Solar Power) si è tornato a parlare in questi giorni, dopo la decisione di Anest di mollare la presa, poiché nessuna delle 14 grandi centrali CSP che si sarebbero potute costruire in Italia ha visto la luce, con progetti schiacciati dalla burocrazia e dai troppi “no” delle comunità locali, in particolare in Sardegna.
Parliamo, è bene chiarire, del solare termodinamico made in Italy che utilizza la tecnologia dei sali fusi ideata dal premio Nobel Carlo Rubbia. Al contrario, la quasi totalità dei grandi impianti CSP realizzati finora nel mondo impiega l’olio diatermico come fluido termovettore.
Il solare a concentrazione, ricordiamo in breve, utilizza specchi parabolici o piani per concentrare i raggi solari su tubi al cui interno scorre un fluido che assorbe il calore; con il calore poi si produrrà il vapore (tramite scambio termico) che a sua volta alimenterà le turbine elettriche.
Il principale vantaggio dei sali fusi è che si possono portare a temperature di 550 gradi centigradi, mentre l’olio non può andare oltre 400 gradi, quindi la tecnologia italiana permette a un impianto CSP di lavorare con maggiore efficienza: la temperatura molto più elevata fa aumentare la pressione del vapore e di conseguenza il rendimento delle turbine.
Tra l’altro, una centrale CSP può produrre energia elettrica anche quando non c’è sole, grazie alla possibilità di accumulare il calore in serbatoi e sfruttarlo in qualsiasi momento per generare il vapore che muove le turbine elettriche.
Le ragioni dell’insuccesso
Che cosa è andato storto in questi anni?
Il primo problema, spiega Gianluigi Angelantoni a QualEnergia.it, “è stato lo sfasamento tra l’uscita dei decreti ministeriali con gli incentivi al solare termodinamico e la presenza effettiva delle autorizzazioni”, un problema iniziato con i primi decreti del 2008 e proseguito nel 2012 sempre con la mancanza delle autorizzazioni, perlopiù regionali.
Nel 2016 il decreto firmato dall’allora ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, metteva sul piatto 100 MW per grandi impianti CSP da incentivare tramite aste. Peccato, osserva Angelantoni, “che quelle aste si dovevano chiudere in 3-4 mesi e nessun investitore, pur stavolta con le autorizzazioni in mano, ebbe tempo sufficiente per fare le due-diligence tecnico-economiche, necessarie per avere una ragionevole certezza sul ritorno dell’investimento in centrali con una nuova tecnologia. E a questo si unì la condizione capestro di un’elevata cauzione, tramite garanzia bancaria, da versare solo per partecipare all’asta”.
L’altro problema che ha bloccato il settore, continua Angelantoni, “è di tipo sociale, perché soprattutto in Sardegna le comunità locali si sono impuntate, osteggiando i progetti con una ragione contestabile, quella del consumo di suolo. Ma le centrali si sarebbero fatte su aree marginali, abbandonate o scarsamente coltivate, senza dimenticare che gli specchi sono installati ad almeno un paio di metri d’altezza da terra e in filari distanti 18-20 metri uno dall’altro, quindi il terreno si può utilizzare per alcune colture o per far pascolare gli animali”.
C’è ancora un aspetto critico, precisa Angelantoni: “Per far partire il settore bisogna costruire almeno qualche impianto grosso, in modo da convincere gli investitori a puntare sulla tecnologia dei sali fusi, creando economie di scala in grado di ridurre i costi d’investimento”.
Per realizzare una centrale CSP da 50 MW, infatti, servono circa 300 milioni di euro.
No in Sardegna, sì in Cina
Quindi il mix italiano è stato davvero letale per l’industria nazionale del CSP, tra autorizzazioni che non arrivano o arrivano tardi, incentivi che non si riescono a sfruttare, allevatori e pastori che si oppongono.
C’è qualche possibilità di investire all’estero?
Angelantoni racconta che a Dubai si sta costruendo un maxi impianto termodinamico da 700 MW per un investimento totale da 4,5 miliardi di dollari, dove non è coinvolta nemmeno un’azienda italiana; la maggior parte della centrale (600 MW) userà specchi parabolici lineari con tubi a olio diatermico, ma per gli altri 100 MW è prevista una configurazione “a torre” con specchi piani che concentrano i raggi solari su un unico ricevitore centrale, riempito di sali fusi.
Dopo un primo impianto a sali fusi costruito in Cina, con tubi italiani, la tecnologia dei sali fusi “è molto caldeggiata dai cinesi”, prosegue Angelantoni, ma i cinesi “hanno inserito una clausola di local content [contenuto locale, ndr] per questi futuri progetti, quindi se vuoi costruire gli impianti CSP in Cina, e ci sono centinaia di MW in cantiere, devi andare a produrre là”.
Tanto che Angelantoni ha parlato di una “delocalizzazione forzata” per la sua Archimede Solar Energy.
Poche speranze anche con il decreto Fer 2
“Fare un po’ di solare termodinamico in Italia poteva essere una palestra per le nostre imprese, per poi puntare sui paesi esteri dove c’è più mercato”, afferma Angelantoni. Secondo lui, il potenziale massimo teorico del CSP nel nostro paese ammonta a 400-500 MW, soprattutto in Sicilia e Sardegna; ma ora è tutto più difficile, anche perché su quasi 30 aziende italiane che operavano nel CSP, quelle rimaste si contano sulle dita di una mano.
“Temo che per il CSP in Italia non si possa fare più nulla”, chiude Angelantoni, “perché quando uscirà il decreto Fer 2 ormai non ci saranno più le autorizzazioni né le imprese italiane del settore”.
L’unica possibilità, forse, secondo Angelantoni, potrebbe arrivare con un decreto che rimane “aperto” con gli incentivi per almeno un paio d’anni, dando così il tempo alle aziende di ottenere permessi e finanziamenti per poi partecipare alle aste; oppure con un decreto che prevede di dare risposte in tempi brevi alle imprese, ad esempio 120 giorni per dire “si” oppure “no” alle richieste di autorizzazione.
Ma conoscendo come solitamente vanno le cose in Italia, quest’ultima sembra un’ipotesi poco plausibile.
Powered by WPeMatico