Troppi investimenti in gas e petrolio: così si rischia di fallire sul clima
Le prime crepe che si sono aperte nella lobby fossile si allargheranno davvero? O rimarranno piccoli assestamenti di una transizione energetica negata?
Non si può evitare di porsi il dubbio, scorrendo le pagine di Overexposed, il rapporto (allegato in basso) appena pubblicato dall’organizzazione internazionale no-profit Global Witness, specializzata in campagne d’informazione su diversi temi (non solo i cambiamenti climatici, ma anche corruzione, riciclo di denaro, disboscamento illegale, distruzione di ecosistemi e così via).
Difatti, evidenzia il documento, le compagnie mondiali del settore oil&gas potrebbero investire cinquemila miliardi di dollari nei prossimi decenni per esplorare nuovi maxi giacimenti di oro nero e gas e così aumentare la produzione di combustibili tradizionali.
Peccato che questo sforzo economico sia incompatibile con l’obiettivo di contenere l’aumento delle temperature medie sotto 2 gradi centigradi entro la fine del secolo, sancito dagli accordi di Parigi sul clima nel 2015.
Global Witness ha confrontato i piani delle grandi aziende petrolifere con gli scenari presenti nell’ultimo studio dell’IPCC (Intergovernmental panel on Climate Change), l’organismo scientifico delle Nazioni Unite che analizza la probabile evoluzione del surriscaldamento globale.
Ebbene, spiegano gli esperti dell’organizzazione no-profit, si scopre che la produzione di petrolio e gas dai pozzi esistenti è già troppa, in confronto a quella “accettata” dagli scenari dell’IPCC che dovrebbero portarci verso una rapida riduzione delle emissioni inquinanti.
Il grafico sotto riassume quanto spiegato finora, per quanto riguarda le risorse di oro nero.
In altre parole: le società di Big Oil dovrebbero smettere immediatamente di finanziare nuovi progetti per cercare idrocarburi.
Altrimenti bisognerà contare sul futuro impiego di tecnologie per catturare la CO2 emessa dagli impianti industriali o per rimuovere l’anidride carbonica già diffusa nell’atmosfera; si parla di tecnologie CCS (Carbon Capture and Storage) e CDR (Carbon Dioxide Removal), vedi anche qui per approfondire perché sono considerate così controverse da una buona parte delle comunità scientifica.
Le contraddizioni delle aziende fossili emergono con evidenza dalla tabella seguente.
Shell ad esempio, prevede di spendere quasi 150 miliardi di dollari dal 2020 al 2029, secondo le elaborazioni di Global Witness su dati di Rystad Energy, per mettere in produzione altri giacimenti di petrolio e gas in tutto il mondo; solo ExxonMobil punta a investire di più (167 miliardi di $), poi troviamo Gazprom, Chevron e Total.
La stessa Shell che pochi giorni fa aveva annunciato di essere in disaccordo con l’associazione Usa del settore petrolchimico in tema di cambiamenti climatici: Shell, a suo dire, contrariamente all’American Fuel & Petrochemical Manufacturers, sostiene le politiche volte a ridurre le emissioni inquinanti, in linea con gli scenari della de-carbonizzazione calcolati dall’IPCC.
Tuttavia, le compagnie petrolifere continuano a dichiarare che i carburanti fossili saranno la base delle nostre economie per altri decenni a venire; di conseguenza, fanno dipendere la riuscita della lotta all’inquinamento globale dall’uso massiccio di soluzioni per assorbire/rimuovere la CO2 dall’aria.
Lo scenario “Sky” di Shell, ad esempio, quello che punta all’azzeramento netto delle emissioni nocive, prevede la realizzazione di almeno 10.000 grandi impianti CCS nei prossimi cinquant’anni (oggi siamo pressoché a zero).
Il rischio di un greenwashing da parte di Big Oil, in definitiva, è sempre in agguato: appoggiare gli impegni per il clima solo a parole, mentre si agisce nella direzione opposta.
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